Perché l'invasione dei robot nel lavoro non sarà così traumatica

Gli studi apocalittici sull'avvento dell'informatica e dell'intelligenza artificiale e sui posti polverizzati? Un'esagerazione. I processi digitali affiancheranno l'uomo. Senza soppiantarlo. Ma bisogna essere pronti.

MARIO MARGIOCCO, 18.12.2017 da www.lettera43.it

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Dopo oltre 40 anni incominciati al tornio e finiti al computer, Sandro sta lasciando una grande azienda metalmeccanica dell’Italia Nord occidentale. «Oggi prepariamo pezzi meccanici di straordinaria precisione, e tutto con un software mirato e in automatico, in pratica. Ma io sono uno degli ultimi in grado di fare le stesse cose al vecchio tornio seguendo le specifiche scritte su un foglio. Si acquista e si perde, come sempre». Sandro incominciava negli Anni 70 in una famosa scuola professionale, la Calcinara di Genova-Sestri. I suoi giovani colleghi oggi sono spesso periti informatici.

LA RIVOLUZIONE GIÀ NEL 2030? Ogni tanto arriva un allarme sulle macchine che stanno soppiantando l’uomo. McKinsey, nome semi-magico, pensatoio e consulenza, abituata a gettare lo sguardo molto oltre e a volte fin troppo, ha parlato recentemente di 800 milioni di lavoratori che verranno sostituiti dai robot, su scala mondiale, entro il 2030. Il 2030 è domani e sembra, quella di McKinsey, una notevole esagerazione. Sarebbe come sostituire la manodopera di tutti i lavoratori dell’Europa, del Nord America, del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, e sembra un po’ troppo, anche perché una parte notevole di quei lavori il robot proprio non li può fare e l’automazione più di tanti non ne può sostituire.

PREVISIONI ASSURDE ANNI 50. Una rivista di quelle che dominavano le sale d’attesa dei dentisti nei primi Anni 50 profetizzava per il 1960 una Roma piena di nuovi palazzi con eliporti sul tetto e un grande traffico di elicotteri nel cielo della capitale italiana. Chi li ha visti? Le previsioni di oggi sul lavoro sono tuttavia meno peregrine di quelle di qualche architetto futurista, o giornalista di Oggi o Gente degli Anni 50. Ormai lo scetticismo, su questi temi, è sinonimo di ignoranza o grande disattenzione.

Il lavoro in alcune realtà come quella bancaria o - mondo molto più piccolo ma significativo - nei giornali, è stato stravolto dalle nuove tecnologie. Persino una semplice falegnameria artigianale non lavora più come prima: le misure si impostano al computer e poi la macchina collegata taglia i pezzi richiesti. E questo ormai da 10 anni e più.

AVVERTIMENTO DI BILL GATES. Bill Gates, il patron di Microsoft, ha ripetutamente avvertito che la robotica e gli algoritmi più avanzati potranno eliminare molto lavoro umano. Il World Economic Forum, con cifre più credibili di quelle di McKinsey, prevede che in pochissimi anni, da qui al 2020, l’automazione si porterà via nei 15 Paesi più avanzati, Italia compresa quindi, circa 5 milioni di posti di lavoro. Fossero soltanto la metà, sarebbe comunque una perdita pesante.

NON CONOSCIAMO I VERI RISCHI. Al recente Web Summit di Lisbona, a novembre (si tiene dal 2009), il noto fisico Stephen Hawking ha parlato dell’intelligenza artificiale, delle prospettive e dei rischi che prefigura. «Non sappiamo come andrà a finire. Non sappiamo se ci aiuterà enormemente. O se saremo ignorati da questo sviluppo, emarginati, e alla fine rovinati».

In Homo Deus. Breve storia del futuro, uscito in Italia a maggio 2017 e ben posizionato nelle vendite, l’israeliano Yuval Noah Harari dell’Università ebraica di Gerusalemme intravede una tecnologia che rischia di marginalizzare l’uomo. I toni sono visionari, ma la visione di un uomo reso superfluo dalle sue stesse realizzazioni affascina, perversamente, molti.

CATASTROFISMO RIDIMENSIONATO. È in qualche modo tranquillizzante, si fa per dire, la risposta a tutte queste visioni più o meno apocalittiche di Barry Eichengreen, professore a Berkeley e uno dei massimi storici dell’economia e della moneta. Vari rapporti come quello citato di McKinsey danno la sensazione che l’innovazione tecnologia e la distruzione di posti di lavoro stiano accelerando drammaticamente, «ma non è questo il caso», sostiene Eichengreen in un intervento per Project Syndicate, autorevole agenzia euro-americana di grandi firme ripresa dai maggiori organi di informazione di tutto il mondo.

TENDENZA IN RALLENTAMENTO. I dati macroeconomici non confermano che questo sta accadendo nella misura annunciata, dice Eichengreen. In realtà la Total Factor Productivity (Tfp) o produttività totale dei fattori, che misura la quota di crescita del Pil attribuibile alle innovazioni tecnologiche e alle riforme strutturali dell’economia, è andata rallentando, e non accelerando a partire dagli Anni 80. «Questo non significa negare che la struttura occupazionale sta cambiando. Ma significa mettere in discussione l’idea molto diffusa che la velocità del cambiamento sta aumentando».

Eichengreen sostiene poi che un conto è trasformare il lavoro, un conto minacciarlo. A suo avviso le trasformazioni saranno profonde, e implicheranno una sempre più attenta preparazione e frequenti aggiornamenti, ma «non ci saranno cambiamenti occupazionali sulla scala di quelli portati dalla prima rivoluzione Industriale con una massiccia redistribuzione dal settore agricolo a quello industriale». Non si assisterà insomma a un profondo passaggio a macchine e processi digitali sostitutivi dell’uomo. Lo affiancheranno, sostituendolo solo in parte, e ne influenzeranno molto il lavoro, ma sarà difficile fare a meno dell’intelligenza e delle mani dell’uomo.

ELOGI AL SISTEMA TEDESCO. Einchengreen loda molto il sistema tedesco (e anche svizzero e austriaco, se è per questo, visto che sono simili) che vede una alleanza formativa iniziale, e poi di aggiornamento, tra scuola e mondo della produzione. In Germania la legge sulla cogestione del 1951, assicurando una rappresentanza dei lavoratori nei Consigli di amministrazione, consente loro di difendere bene le istanze della formazione continua, mentre il governo federale fissa standard formativi uguali per tutto il Paese, dove sono poi i länder ad applicarli.

Non si tratta di salvare i posti di lavoro dalle macchine, che non li minacciano più di tanto, ma di imparare a lavorare con le macchine

Anche in Italia esistono programmi per il sostegno all’innovazione tecnologica, ma forse anche qui è il caso di avere una visione meno apocalittica e più concreta e mirare a una scadenza di obiettivi. Non si tratta di salvare i posti di lavoro dalle macchine, che non li minacciano più di tanto, ma di imparare a lavorare con le macchine.

VISIONI MENO PESSIMISTICHE. È una visione meno pessimistica di quella corrente che trova spazio, in Italia, in un recente giro di orizzonte sul mondo dell’innovazione fatto da Edoardo Segantini (La nuova chiave a stella. Storie di persone nella fabbrica del futuro, Guerini editore, ottobre 2017), manager delle telecomunicazioni e poi giornalista e commentatore del Corriere della sera.

BISOGNA FARSI TROVARE PRONTI. Come diceva a Segantini nel lontano 1984 Primo Levi, tecnico di professione oltre che scrittore di rango, autore anche del ben noto e ammirato La chiave a stella, «chi possiede il suo lavoro, chi sa trarne godimento, chi vi si riconosce, è un fortunato». Forse l’invasione di robot e informatica risulta e risulterà meno traumatica del previsto, per chi è pronto. E il messaggio di Primo Levi certamente mantiene tutto il suo valore.

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