Hanno una banca Mediobanca, il governo Meloni e il provincialismo del sovranismo finanziario
- Dettagli
- Categoria: Economia
L’esecutivo di centrodestra vuole piegare il sistema bancario italiano a logiche dirigiste e di fedeltà politica, ma non è un bene per il paese
Alessandro Solza 22.8,2025 linkiesta.it lettura4’
Alberto Nagel, ceo di Mediobanca, ha perso la partita di Banca Generali. A vincere è stato Francesco Gaetano Caltagirone, l’imprenditore che ha dietro la forza e l’appoggio del governo di Giorgia Meloni, e in particolare del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. I soci della banca d’affari, riuniti ieri in assemblea, hanno bocciato l’offerta che prevedeva di rilevare il cento per cento di Banca Generali dando in cambio ai suoi azionisti il tredici per cento delle assicurazioni Generali, oggi detenuto dalla stessa Mediobanca. Una mossa con la quale Nagel si sarebbe liberato della storica quota della compagnia triestina proprio quando sulla stessa Mediobanca è in corso l’offerta lanciata a sua volta dal Monte dei Paschi di Siena, che terminerà l’8 settembre. Ma non sarà così. Per Mps la strada è ora in discesa.
Al di là della cronaca finanziaria e dei possibili sviluppi ancora in discussione, l’orizzonte che da ieri si intravede più chiaramente implica una torsione del nostro sistema finanziario verso un modello non proprio innovativo. Più dirigista che liberale; più familiare che di mercato.
Nell’attacco portato a Mediobanca da Caltagirone, al fianco degli eredi Del Vecchio, e con l’appoggio determinante del governo di destra, si rischia di prendere fischi per fiaschi: di sostituire il presunto salotto buono dei poteri forti della galassia del Nord, quello costruito nel Novecento da Enrico Cuccia, classe 1907, con un salotto ancora più asfittico, romanocentrico e giocoforza legato a doppio filo con la politica.
In altri termini, attribuendo a Mediobanca il peccato originale di avere gestito il capitalismo italiano con un sistema chiuso di intrecci banche-assicurazioni-industria autoreferenziale, composto sempre dai soliti noti, ci si dimentica che quel sistema è nel frattempo evoluto e, sotto la guida di Alberto Nagel, classe 1965, si è aperto al mercato e al capitale internazionale. In ogni caso, né con Cuccia, né con Nagel, ha mai permesso alla politica di metterci becco, separando gli interessi pubblici perseguiti da questo o quel governo, da quelli privati, la cui validità è determinata dal mercato. Ora, nel nome di un fantomatico e impalpabile sovranismo finanziario, o di una poco credibile difesa dei Btp, si rischia di portare anche nella sfera del capitale privato modelli di corporativismo che si speravano morti e sepolti.
La cronaca di ieri è, in proposito, indicativa. A votare a favore è stato il trentacinque per cento del capitale; ma il trentadue per cento, astenendosi, si è sommato al dieci per cento di Caltagirone, che ha votato contro: il grande nemico di Nagel è, allo stesso tempo, anche azionista di Generali con il sette per cento e di Mps con il dieci per cento. Ma a decidere la sconfitta di Nagel sono stati gli astenuti. Non parliamo tanto della Delfin degli eredi Del Vecchio, che con il loro venti per cento (oltre al dieci per cento in Generali e altrettanto in Mps) sono da anni i sodali di Caltagirone in questa battaglia; ci riferiamo piuttosto agli azionisti minori quali le casse di previdenza con il cinque per cento (Enasarco, Enpam, Forense), il tre per cento di azioni detenute da fondi comuni (Amundi, Anima, Tages), il due per cento dei Benetton e il due per cento di Unicredit. A Nagel sarebbe bastato anche solo il voto favorevole di questi ultimi due: i sì sarebbero balzati al trentanove per cento, sopravanzando il restante trentotto per cento.
A pensar male si fa peccato, come noto. Ma davanti agli schieramenti di ieri non si può neanche far finta di non vedere, in controluce, la forte presenza del tandem Meloni-Giorgetti. Nei rapporti presenti e futuri con l’esecutivo, tutti hanno qualcosa da perdere o qualcos’altro da guadagnare. Prendiamo gli enti previdenziali: si tratta di fondazioni sottoposte alla vigilanza del governo, con un ruolo determinante del Mef, che lo stesso azionista di riferimento del Monte dei Paschi (con l’11,7 per cento) nonché regista dell’Ops su Mediobanca. Difficile pensare che le fondazioni avrebbero votato diversamente. Magari non contro, per il rischio di essere accusati di non fare l’interesse degli iscritti. Mentre l’astensione può essere giustificata più facilmente sul fronte dei rischi e incertezze dell’operazione proposta. Analoghe considerazioni si possono fare – a torto o a ragione – sui tre fondi d’investimento. Quelli di Anima e di Tages sono entrambi nell’orbita del Banco Bpm, che a sua volta partecipa all’operazione Mps-Mediobanca (è diventata socia comprando dal Mef l’8,99 per cento della banca senese proprio nell’imminenza del successivo lancio dell’Ops su Mediobanca). Mentre i fondi Amundi fanno capo a quel Credit Agricole che aspira al via libera per scalare ulteriormente la stessa Bpm, di cui ha già il venti per cento.
Infine, ci sono Unicredit e Benetton, apparentemente meno coinvolti. Il capo della banca milanese, Andrea Orcel, è stato addirittura stoppato da Giorgetti nelle sue mire su Bpm, con il Golden Power. Ma anche lui vorrà fare qualcosa con Unicredit, prima o poi. Magari partecipare a un nocciolo duro di futuri azionisti delle Generali del quale si comincia a parlare dietro le quinte, per sostituire Mediobanca senza lasciare tutto nelle mani di Caltagirone (e magari premiare chi si è fin qui comportato bene).
In ogni caso, essere additato a vita come il nemico del governo più longevo della storia non conviene neanche a Orcel. E tanto meno ai Benetton che, dopo il disastro del ponte Morandi, restano i proprietari degli aeroporti della capitale (Adr), da tempo in attesa del via libera (politico, tecnico, ambientale) al piano da cinque miliardi per l’espansione dell’area di Fiumicino, con la costruzione di una quarta pista.
L’esito del voto di ieri pare un proxy di come potrebbe finire l’Ops di Mps: chi ha votato contro o astenuto dovrebbe consegnare le azioni. Dopodiché, la partita non è chiusa. Caltagirone e Delfin devono superare alcuni ostacoli normativi rilevanti. Intanto resta aperta l’inchiesta giudiziaria di Milano che vuol far luce sui passaggi che hanno portato alla formazione dell’azionariato di Mps che ha poi lanciato l’Ops su Mediobanca. E poi, per quanto siano ricchi come Creso, l’ingegnere Caltagirone e i litigiosi eredi Del Vecchio non sono gruppi bancari vigilati e regolati: la Bce dovrà determinare se, nel nuovo assetto, sussistano i requisiti per la stabilità del nuovo sistema Mps-Mediobanca-Generali. Così come si dovrà capire chi nominerà gli organismi di gestione di gruppi con decine di migliaia di soci.
In proposito, l’assemblea di ieri ha dato un verdetto significativo: la totalità degli investitori istituzionali (circa il venticinque per cento) oltre ai piccoli vecchi soci industriali, ha votato a favore del progetto di Nagel. A testimoniare che il sistema che Palazzo Chigi vuole ignorare è proprio quello internazionale e liberale. Per sostituirlo con il nuovo modello italiano del sovranismo finanziario.


