Perché la Camusso è nel panico

L’autoconservazione del potere sindacale è il mostro da battere limitando i contratti nazionali. Il caso Poletti e le ragioni delle paure del sindacato

di Sergio Soave | 30 Novembre 2015 ore 19:47 Foglio

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Roma. Un’osservazione di Giuliano Poletti, che nel corso di un convegno di economisti aveva parlato dell’esigenza di affiancare al criterio dell’orario e della qualifica altri parametri per definire le retribuzioni, ha scatenato una bufera di contestazioni di tono addirittura sarcastico da parte di esponenti sindacali, a cominciare dall’ineffabile segretaria della Cgil Susanna Camusso. In realtà quel che ha detto Poletti è quasi un’ovvietà. Un lavoro viene valutato non solo per il tempo che richiede ma anche per la qualità del suo risultato, e questa non è certo una novità. Perché allora ha suscitato reazioni così dure? Anche facendo la tara dello spirito polemico che nasce da una contrapposizione politica al governo, che è lecito ma poco compatibile con una funzione sindacale e contrattuale, non si può che notare una esagerazione che probabilmente nasce dalla volontà di rifiutare a priori ogni discussione che posa mettere in discussione il “dogma” della centralità del contratto nazionale di categoria. Da mezzo secolo in Italia si è costruito un sistema contrattuale che punta a definire in un solo documento tutti gli aspetti del rapporto tra lavoro e retribuzione. Anche per questo i contratti di lavoro sono diventati sempre più voluminosi per il tentativo di inseguire con formule onnicomprensive una realtà sempre più complessa. Però più pagine si scrivono sui contratti, meno questi diventano il vero regolatore del sistema retributivo, proprio perché questo sforzo di Sisifo, cui si sono dedicate per decenni le burocrazie sindacali e confindustriali, non può mai raggiungere il risultato prefisso.

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A dimostrazione dell’ormai insostenibile pesantezza del regime contrattuale obsoleto stanno i dati che mostrano come i differenziali retributivi reali siano legati a fattori, da quelli territoriali a quelli qualitativi, che il sistema centralistico non riesce a governare. Persino i dati della recentissima ricerca dell’osservatorio “job princing e Repubblica” mettono in evidenza come i salari del settore privato siano molto differenziati territorialmente, soprattutto perché nelle zone meno industrializzate per effetto non solo dei differenziali di costo della vita (che i contratti di lavoro nazionali non contemplano, ma anche per la minore densità della contrattazione aziendale che premia la produttività. L’autore della ricerca, Mario Vavassori ne deduce che “si fa sempre più strada una concezione del lavoro “individuale”. Resta da verificare se i sistemi di tutela rappresentati dai contratti nazionali siano ancora lo strumento migliore per comprendere e valorizzare questa realtà”. Detto in modo accademico, è lo stesso problema evocato da Poletti. La caparbia volontà della Cgil (e non solo) di voler difendere un regime contrattuale che non ha prodotto, nell’ultimo decennio, un adeguamento sufficiente delle retribuzioni, che dove sono cresciute erano legate a parametri che si possono misurare solo a livello aziendale, non nasce dall’esigenza di tutelare il lavoro ma da quella di mantenere una sorta di “potere sindacale” ormai ridotto per la verità a un simulacro al di fuori delle aree estranee alla competizione, come il pubblico impiego. Il sindacato (del lavoro e dell’impresa) pretende di esercitare una “autorità contrattuale” indipendentemente dall’evoluzione e dell’articolazione dei sistemi di lavoro e dalla segmentazione del mercato del lavoro.

Il timore di essere estromessi da questo “potere” ha portato a una situazione in cui sia ai vertici della piramide produttiva sia alla base, cioè sia alla Fca sia nelle aziende minori, la pattuizione nazionale non serve a nulla. Se non cambierà il paradigma, l’area di lavoro effettivamente tutelata dai contratti nazionali è destinata a ridursi fino all’irrilevanza. Il passaggio da una logica conflittuale a una collaborativa è nei fatti, volerla negare per continuare a usufruire della retorica della lotta di classe che nasconde la comunanza di interessi delle burocrazie sindacali e datoriali, ormai è una battaglia contro i mulini a vento. Poletti ha solo descritto una realtà di fatto, peraltro allo scopo di stimolare una riflessione tra i sindacati e non di intervenire con misure legislative sostitutive della contrattazione, ma le reazioni che ha suscitato fanno capire dove sta il conservatorismo miope e, alla fine, autolesionista.

Econoia

Commento

Moreno Lupi • 12 ore fa

"Poletti e il salario. Le solite menate ideologiche che mascherano interessi di bottega e quote di potere. "Lavoro a cottimo?”, Poletti non ne parla. Il nodo è nativo. Scrive Karl Marx nel

Capitale che ”la quantità’ di lavoro stessa ha per misura la sua durata nel

tempo, ed il tempo di lavoro possiede di nuovo la sua misura nelle parti del

tempo come l’ora, il giorno, etc.”. Ovvio che non si ponesse mai la domanda,

sennò gli cascava tutto, del "cosa scaturisce, del cosa produce, di quale

risorse è madre l'ora di lavoro?" Si legittimava politicamente la parità

tra "quantità e qualità". Dalla regola esulavano solo i membri della

“nomenklatura”. Appunto, roba marxista. Regolare la quantità spettava allo Stato-Partito e, il

cerchio si chiudeva. Capite ora perché i lemmi "produttività",

"mercato", "competitività", "merito", siano

oggetti misteriosi e indigesti per la signora Camusso? Capite che i poteri d'interdizione del sindacato derivano da quell'impostazione? Capite perché, unica al mondo, la cultura sindacale italiana abbia sempre rifiutato di considerare capitale e lavoro entità complementari? Capite perché anche i capitalisti assistiti dallo stat abbiano avuto interessi paralleli? Poi, che in quei lemmi, produttività, mercato, merito, competitività, ci siano anche frange d'ingiustizie, prevaricazioni, prepotenze, diritti aleatori,

disuguaglianze, è vero, è inevitabile, siamo uomini, non santi, come è stato altrettanto inevitabile che la proposta marxista: nomenklatura, abolizione della proprietà privata e plebe indottrinata, sia stata, da tutto il mondo, ritenuta

inattuabile e rifiutata perché peggiore del male che voleva eliminare.

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