La disoccupazione cala, ma il mercato del lavoro s’agita più in profondità

Scoraggiati e giovani: ecco i chiaroscuri del tasso di disoccupazione italiano all’11,5 per cento. Berlino studia la demografia

di Francesco Seghezzi | 01 Dicembre 2015 ore 17:01 Foglio

Diminuisce la disoccupazione ma anche il numero degli occupati; aumentano gli inattivi. E’ un panorama complesso e non troppo positivo quello che emerge dai dati Istat sull’occupazione italiana. Da un lato si conferma un calo del numero di disoccupati (meno 13 mila), con il tasso di disoccupazione che scende all’11,5 per cento, ma questo è compensato dalla crescita di coloro, 32 mila, che hanno smesso di cercare un lavoro, poiché rassegnati. Il dato più interessante è però quello relativo alle fasce d’età in cui vengono creati posti di lavoro. Nell’ultimo anno abbiamo avuto 226 mila posti in più tra gli over 50, un calo di 175 mila posti nella fascia 36-49 e una sostanziale stagnazione in quelle più giovani. Tutti segnali di un mercato del lavoro che sta cambiando, con lavoratori che invecchiano e contratti a tempo indeterminato che non decollano fermandosi a soli 13 mila posti in un anno.

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Un mercato del lavoro che non riesce a riprendersi da una crisi economica che stiamo forse lentamente superando, ma che ci riconsegna uno scenario completamente nuovo. Tutto questo proprio in un momento in cui la fine dell’orario di lavoro come unico criterio per valutare la prestazione di lavoro e la retribuzione legata al risultato sono entrati nel dibattito italiano dopo le dichiarazioni del ministro del Lavoro Poletti dei giorni scorsi. Concetti che aprono scenari nuovi, quelli di un lavoro in grande trasformazione, tanto studiati e dibattuti all’estero quanto spesso ignorati nel nostro paese e mai utilizzati per spiegare dinamiche occupazionali che non rispondono alle fasi di ripresa economica. In particolare il governo tedesco, da tempo impegnato in investimenti sulle nuove forme di manifattura digitale, ha pubblicato un Libro Verde dal titolo “Re-imagining work. Work 4.0”, richiamandosi al concetto di Industrie 4.0 e alle sue implicazioni. Il documento si basa sull’idea che non possiamo più guardare al mercato del lavoro con gli stessi occhi di vent’anni fa e riconosce che molti dei problemi che sorgono oggi possono essere buone opportunità per una migliore qualità del lavoro, delle relazioni industriali e dei rapporti socio-economici. “Abbiamo bisogno di una nuova definizione di ciò che definisce un rapporto di lavoro standard”, dichiara il Libro verde. Non è poca cosa. Equivale a dire che il paradigma del lavoro come oggi lo conosciamo, incarnato dal lavoro subordinato a tempo indeterminato, non esiste più nella realtà dei fatti. Ma non però nella legge, se è vero che l’annunciata rivoluzione del Jobs Act fa di questo vecchio arnese, seppure semplificato nelle fasi di assunzione e di licenziamento, la forma comune del lavoro in Italia. Una forma comune che trova ancora oggi nell’orario di lavoro il suo punto maggiormente qualificante per la misurazione della prestazione e la determinazione del suo valore economico.

 

Venendo al testo, questo si muove lungo due linee guida che si incrociano contaminandosi a vicenda: le nuove dinamiche demografiche e sociali – che come sostenuto dall’economista Edward Lazear sul Foglio di sabato scorso possono influenzare perfino i tassi d’imprenditorialità nei paesi sviluppati – e la conseguente crisi del modello tradizionale di lavoro subordinato. Le cause di questa crisi sono molte: la digitalizzazione del lavoro, la diffusione di tecnologie che consentono di lavorare dovunque, la diffusione di modelli di lavoro non-standard, la necessità di un continuo aggiornamento professionale. A queste si aggiungono dinamiche sociali che si concretano nelle nuove esigenze dei lavoratori della cosiddetta Generazione Y, di una sostanziale “sovranità sui tempi di lavoro” che consenta a loro di costruire carriere e vita all’interno di una visione più individualista dei rapporti tra lavoro e società. Allo stesso tempo l’invecchiamento della popolazione richiede un mercato del lavoro e una impresa in grado di immaginare percorsi di ricollocazione e di interscambio tra carriere. Le due constatazioni portano all’idea guida del Libro verde, ossia che è necessario costruire un nuovo modello di lavoro che concili la flessibilità individuale nello sviluppo di fasi e piani di vita con una parallela protezione sociale. Che sarebbe a dire: il posto fisso è ormai obsoleto, sia per i sistemi produttivi, sia nei desideri dei lavoratori, serve quindi un modello sociale che possa accompagnare tutti nelle fasi di transizione e nei progetti che vorranno intraprendere nella costruzione della propria carriera lavorativa.

Il tutto con la premessa fondamentale che lo slogan “work for all” resta al centro delle politiche del lavoro. Mantenere un elevato tasso di partecipazione al mercato del lavoro è la priorità assoluta, specialmente per qui lavoratori low-skilled che oggi in Germania hanno un tasso di disoccupazione del 19 per cento.

 

Ma chi desiderasse ancora un posto fisso? Chi non fosse interessato a una maggiore autonomia nei tempi di lavoro e nelle carriere lavorative? La proposta del Libro verde è quella di un “compromesso di flessibilità” che consenta a chi vuole di adattare il proprio lavoro alle diverse fasi della vita, lavorando meno negli anni di crescita di un figlio o nei periodi in cui si sceglie di fare formazione, per esempio. Questo sistema è sostenibile solo potenziando un sistema di protezione sociale che abbia come obiettivo rendere attive le persone, accompagnandole nei periodi di transizione tra un impiego e l’altro. In questo modo si potrà accogliere la trasformazione senza temerla ma governandola e adattandola non unicamente alle esigenze di mercato ma anche a quelle della persona, nella migliore tradizione dell’economia sociale di mercato tedesca.

Francesco Seghezzi è ricercatore del Centro studi Adapt

Categoria Economia

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