Google finanzia l’estremismo?

Il motore di ricerca piazza le pubblicità anche in siti e dentro i video degli agitatori politici e religiosi più radicali. Che così hanno guadagnato 320 mila dollari.

FEDERICO GENNARI SANTORI, da LETTERA43, 26.3.2017

Se Google è Google lo deve al suo rivoluzionario sistema di advertising. Quello che consiste nel distribuire gli avvisi in Rete, soddisfacendo le esigenze di diffusione e targhettizzazione degli inserzionisti e garantendo degli introiti ai siti web che scelgono di ospitarli. Ma anche le rivoluzioni di maggior successo hanno le loro zone grigie. Su cui, prima o poi, qualcuno riesce a far luce. Un gruppo interpartitico di parlamentari britannici ha accusato Big G di «lucrare sull’odio». E di far guadagnare anche estremisti politici e religiosi. Scontentando i grandi inserzionisti.

LEADER RADICALI FANNO FARE IL PIENO A MOUNTAIN VIEW. Il caso è scoppiato nel Regno Unito grazie a un’inchiesta del Times, che ha fatto alcuni nomi particolarmente illustri. Wagdi Ghoneim è un noto fondamentalista musulmano; i suoi video, in cui incita al terrorismo contro l’occidente, avrebbero fruttato ben 78 mila dollari. Il pastore Steven Anderson, salito agli onori delle cronache per aver giudicato «una buona notizia» il massacro nella discoteca gay di Orlando, dovrebbe a Google l’incasso di 68 mila dollari. E di quasi 34 mila l’antisemita, nonché membro del Ku Klux Klan, David Duke.

Ma c’è di più. Perché razionalmente si potrebbe pensare che la pubblicità mostrata nei siti e durante i video di soggetti simili sia mero spam: cose tipo “clicca qui”, “dimagrisci 10 chili in 5 giorni”, “ottieni un fisico da atleta con questa pillola”. E invece no. O, almeno, non solo. Spesso sono spot di grandi brand come L’Oréal, di reti televisive come la Bbc, di giornali come il Guardian e perfino di governi. Grazie ai quali, secondo alcuni esperti di marketing interpellati dal Times, gli account su YouTube (che appartiene a Google) gestiti da chi semina odio avrebbero ricavato in totale circa 318 mila dollari.

«Queste pubblicità sono ancora piazzate in luoghi inappropriati», ha sottolineato la laburista Yvette Cooper, accusando Big G di «prostituzione commerciale». Della stessa idea sono i professionisti dell’advertising e i brand, a cui non deve aver fatto piacere scoprire che le loro pubblicità sono finite su siti xenofobi e in mezzo a canali YouTube che si ispirano all’Isis. Secondo Martin Sorrell, direttore del gruppo WPP, «Google, come anche Facebook, è una media company e, in quanto tale, ha le stesse responsabilità della altre media company. Non possono mascherarsi a loro comodo come aziende tecnologiche, tanto più se vendono spazi pubblicitari». Il Times ha calcolato che il motore di ricerca avrebbe già perso una cifra prossima ai 150 mila dollari a causa dei tagli operati da advertiser scontenti.

SPOT GIÀ BLOCCATI A 100 MILA SITI. Il responsabile di Google Uk, Ronan Harris, ha risposto che prenderanno le misure necessarie per dare ai brand maggiore controllo sulla destinazione dei loro spot. Nell’ultimo anno sono stati rimossi circa 2 milioni di “pubblicità malevole” e bloccati 100 mila siti, che non potranno più mostrare le pubblicità gestite da Google e trattenere una percentuale dei ricavi. Ma non è ancora abbastanza. Se la piattaforma non si darà regole nuove e più efficaci – minacciano i deputati britannici – sarà presto lo Stato a imporle.

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, 'gli anni della rabbia", in edicola, in digitale e in abbonamento dall'25 al 31 marzo 2017.

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