Se a Visegrad mancano i lavoratori

I paesi del gruppo Visegrad si sono opposti con forza all’ingresso di richiedenti asilo. Ora però devono ovviare alle carenze del mercato del lavoro

11.01.19 Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin www.lavoce.info

I paesi del gruppo Visegrad si sono opposti con forza all’ingresso di richiedenti asilo. Ora però devono ovviare alle carenze del mercato del lavoro. E poiché l’inverno demografico coinvolgerà tutta l’Europa, forse converrebbe cercare strategie comuni.

Tendenze demografiche dei quattro paesi

I paesi UE del cosiddetto “gruppo di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) sono tra i più rigidi per quanto riguarda le politiche migratorie. L’apice della chiusura è stato il rifiuto di rispettare la quota stabilita dei cosiddetti ricollocamenti di migranti da Italia e Grecia tra il 2015 e il 2017: una barricata ideologica, visti i numeri degli impegni previsti: circa 6 mila per Varsavia, 2.700 per Praga, 1.300 per Budapest e 900 per Bratislava.

In realtà, si tratta di paesi con una bassissima presenza straniera e con una forte tendenza all’invecchiamento della popolazione. Se oggi registrano un’età media nettamente inferiore rispetto a Italia e Germania e al di sotto della media UE, nel 2050 sfioreranno o addirittura supereranno i 50 anni di media, con una quota di anziani (over 65) intorno al 30 per cento, proprio al livello di Roma e Berlino. In altri termini, questi paesi registreranno un calo significativo della popolazione in età lavorativa (tra il 15 e il 26 per cento) e un contemporaneo aumento della popolazione anziana (dal +42,8 per cento dell’Ungheria al +87,6 per cento della Slovacchia). Complessivamente, nel 2050 i V4 avranno quasi 10 milioni di persone in meno in età lavorativa e quasi 7 milioni di persone in più in età pensionabile.

Quali sono allora le loro strategie per mantenere sostenibile il sistema produttivo?

Tabella 1 – Tendenze demografiche nei paesi di “Visegrad”

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Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat, scenario base

Le soluzioni ipotizzate

Il paese più popoloso è la Polonia (38 milioni di abitanti), che negli ultimi dieci anni, dopo l’ingresso nell’Unione europea, ha vissuto l’esodo di almeno 2 milioni di lavoratori principalmente verso la Germania e il Regno Unito.

L’economia è in buona salute e dal 2010 gli stipendi sono cresciuti del 20 per cento, ma circa il 30 per cento delle piccole e medie imprese polacche fatica a trovare personale sia tecnico che generico. Il governo polacco, ostile verso l’immigrazione africana o asiatica, ha però aperto le porte a oltre un milione di ucraini, dapprima accolti come rifugiati (per la guerra civile in corso in alcune aree dopo l’occupazione russa della Crimea) e poi riconosciuti anche formalmente come migranti economici con visti temporanei di lavoro. Oltre agli ucraini, allo stesso modo sono entrati anche armeni, bielorussi, georgiani, moldavi e russi. Infine, il governo polacco ha stipulato un accordo con le Filippine. Ecco quindi che la Polonia nel 2018 è diventata il paese europeo con i maggiori flussi migratori in entrata per lavoro, superando la stessa Germania. Anzi, ora la preoccupazione è non vedere troppi lavoratori transitare solo brevemente in Polonia alla ricerca di migliori salari in altre aree dell’UE.

Stessi problemi ma risposte diverse nella vicina Ungheria (poco meno di 10 milioni di abitanti). Dal 2010, circa 600 mila lavoratori ungheresi sono emigrati in cerca di migliori salari all’interno dell’Ue. Lo scorso dicembre il parlamento ha approvato una legge che aumenta le ore di straordinario annue da 250 a 400, con la possibilità per le aziende di pagarle dopo tre anni. Formalmente lo straordinario è volontario, ma in un paese con un sindacato debolissimo, ben pochi lavoratori riusciranno a opporsi alle richieste delle loro aziende, tanto è vero che le opposizioni hanno ribattezzato la norma come “legge schiavitù”. Nonostante duri scontri di piazza a Budapest prima di Natale, il presidente della repubblica ha controfirmato la legge. La sua applicazione, tuttavia, potrebbe ledere la popolarità del premier Orban.

Repubblica Ceca (10,6 milioni di abitanti) e Slovacchia (5,4 milioni) cercano invece di battere la strada dell’automazione industriale e della robotizzazione. Soprattutto la Repubblica Ceca vanta una tradizione in questo campo (la parola “robot” significa in slavo “lavoratore”). Occorrono risorse significative per investire nella robotica, ma si aprono anche interrogativi inediti come quello su chi pagherà le tasse e i contributi nelle società che puntano alla riduzione dei lavoratori. Se ne è occupato anche il Parlamento europeo: già nel 2016 la deputata lussemburghese Mary Delvaux (Partito socialista) ha depositato una proposta di legge per tassare il lavoro dei robot. Non si tratta di una novità assoluta poiché già nel 1927 l’economista Frank Ramsey aveva proposto una svolta nelle politiche fiscali incentrata sulla tassazione della produzione anziché delle persone fisiche. Non sarà una svolta semplice poiché, dal punto di vista delle imprese, rende più onerosi gli investimenti in tecnologia.

Dunque, i paesi che più si sono opposti alla politica di Angela Merkel che ha favorito l’ingresso di richiedenti asilo anche per ovviare alle carenze del mercato del lavoro, non sospettavano di dover trovare risposte adeguate agli stessi problemi in così breve tempo. Le soluzioni fin qui avanzate implicano non poche contraddizioni e punti interrogativi, ma rappresentano una presa di coscienza del problema. Dato che l’inverno demografico coinvolgerà tutta Europa, converrebbe forse cercare strategie comuni anziché alzare barricate interne.

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