Dinastie Coronate. «Love of my life» Harry Minetti e l’aristocrazia che sopravvive parlando come il proletariato esibizionista

Anche i reali sono diventati sentimentali e infantili, egotici e identitari, con la recriminazione sempre in tasca e la capacità di monetizzarla altrettanto pronta

L’avvelenata, Guia Soncini 11.1. 2023 linkiesta.it lettura6’

Se arrivate fino in fondo – o se saltate subito alle pagine dei ringraziamenti – sarà tutto chiaro: Harry, nel ringraziare Meghan, le dice «Love of my life», e ci metterete cinque secondi: cosa vi ricorda? Ah, certo, «love of my life»: il vocativo che Nicole Minetti usava per Silvio Berlusconi. Il lessico dei romanzi rosa che diventa lessico da reality che diventa lessico degli inattrezzati, inattrezzati che una volta erano i poveri prima che i ricchi avocassero a sé l’analfabetismo (è appropriazione culturale o di classe? Ah, saperlo).

Dev’essere proprio un’espressione che gli piace, a Harry Minetti: la usa anche con Anderson Cooper, nell’intervista promozionale alla tv americana. I had found the love of my life. L’aristocrazia è morta, e la monarchia sopravvive solo parlando come il proletariato esibizionista.

L’aristocrazia è morta, e i primi segni del decesso erano nel declino della servitù. Paul Burrell, già maggiordomo di Diana e poi forse ladro e certamente biografo pettegolo, appare alla tv per stigmatizzare Harry. E lo fa, l’ex maggiordomo della casa reale, con una camicia aperta fino al terzo bottone.

 

È tutto lì, tra impossibilità di riconoscere la classe d’appartenenza e love of my life assortiti, il Grande Indifferenziato del quale la (auto)biografia più anticipata dell’anno è manifesto: la fine dell’aristocrazia, che lascia solo macerie, macerie in forma di personaggi da reality o da spazio dello psicologo in un programma del pomeriggio, macerie lessicali e sartoriali; sopra le macerie, sventolano festoni colorati e contratti d’esclusiva.

 

Non servono neanche le oltre quattrocento pagine del libro uscito ieri (oltre cinquecento nell’edizione italiana) per capire quel che era ovvio: c’era una volta l’aristocrazia, e adesso c’è lo psicologismo di massa. Già solo scorrendo le anticipazioni, Camilla Long (forse la miglior editorialista inglese) aveva sintetizzato sul Times: «È un eccesso di informazioni e condivisione stupefacente, grottesco, e molto americano».

L’americanizzazione dell’occidente pasciuto è un’analisi della vicenda assai più convincente della più quotata «Harry uomo debole influenzato da moglie arrampicatrice». L’America ha smesso d’essere dall’altra parte della Luna ed è introiettata dall’intero occidente. Siamo tutti sentimentali e infantili, egotici e identitari, con la recriminazione sempre in tasca e la capacità di monetizzarla altrettanto pronta. Siamo tutti figli di Diana, la più letale influenza culturale che l’occidente post-guerre mondiali abbia conosciuto.

Non siamo, come William, figli di Carlo, consapevoli che dobbiamo portare avanti la baracca anche se vorremmo fare altro.

Siamo tutti Harry, con la sfiga di non essere davvero nati da lombi principeschi e non poter quindi altrettanto monetizzare la nostra banalità. Ma, poiché siamo fermamente decisi a fingere che le classi sociali non facciano differenza, non lasceremo che qualche decina di milioni di euro castri la nostra propensione a identificarci in due mantenuti che si vendono le liti di famiglia quando la famiglia cessa di mantenerli.

Lo dice Harry stesso, nell’intervista alla tv inglese (in Italia in onda su RealTime). Usa la parola preferita dall’Instagram e dai reality: relatable. Nella mia storia si possono immedesimare tutti quelli che hanno avuto un lutto. Non aggiunge: e che come me sono determinati a restare attaccati a quel lutto trent’anni dopo, a mungerlo finché sarà rinsecchito, a non cedere mai il fruttuoso ruolo di miglior orfano protagonista.

Il lessico da marketing dell’instagram lo usa tutto. Manca solo «percorso», che forse è la variazione italiana nella semantica di queste storie dall’arco narrativo prevedibile. Per il resto c’è tutto: relatable e owning my story, safe space e «pregiudizio inconscio»; con la sola differenza che, se lui dice «bias» invece di «pregiudizio», sta parlando nella sua lingua e non nell’anglomilanese di chi fatica sia con l’italiano sia con l’inglese.

(A un certo punto l’intervistatore inglese gli dice che è una storia shakespeariana e Harry, con la convinzione con cui un idraulico si guarda intorno e chiede alla cliente media riflessiva «quanti libri, li ha letti tutti?», risponde: «Probabilmente hai letto più Shakespeare di me, anche se non quanto mio padre». Pensa aver vissuto nel tempo di Harold Bloom e pensare che il massimo studioso di Shakespeare sia Carlo d’Inghilterra. Pensa che favoloso rappresentante di quel Grande Indifferenziato che scambia l’istruzione per la cultura ci troviamo ad avere sul comodino: che epoca fortunata siamo).

Sì, ma il libro?, diranno i miei venticinque lettori. Il libro, orsù, non l’hai dunque letto per noi? Purtroppo sì, e sono qui a rassicurarvi e a destabilizzarvi. La rassicurazione: non usa la parola «montare». Nei milioni di anticipazioni uscite sui giornali anglofoni, e uscite perché gli spagnoli (un popolo che gareggia con gli italiani in cialtroneria, e spesso li batte) si sono sbagliati e hanno messo in vendita il tomo una settimana prima, il principe scriveva del suo primo rapporto sessuale «L’ho montata velocemente». Quel «mounted» aveva stranito i commentatori inglesi: non può averlo scritto davvero, dev’essere un problema di traduzione dalle copie spagnole. E in effetti in quella inglese egli scrive «quick ride» – che è lo stesso, ma facciamo finta che non lo sia.

Adesso, se siete ceto medio riflessivo determinato a dire a sé stesso che ha consumi culturali d’un certo livello e che Open non era un libro da autogrill, smettete di leggere. Perché io sto per scrivere che J.R. Moehringer – autore ombra di Harry, già autore ombra di André Agassi – il suo milione e mezzo (cachet chiacchierato) non se l’è guadagnato.

Harry si lamenta che la sua cameretta fosse più brutta di quella di William, avrete letto nelle anticipazioni. È in effetti un dettaglio eloquente: il tutto è formulato premettendo «non me ne lamento», detto mentre lo rinfacci trent’anni dopo (tipica modalità passivoaggressiva da concorrente di reality); e non devi avere ben niente di concreto da recriminare, per pensare agli arredi negli anni di scuola.

Tuttavia, vale la pena distrarsi dal mobilio per osservare il contesto del capitolo. La camera è quella a Balmoral, residenza estiva della regina. Una stanza – ce lo dice Harry – è stata data ai due fratelli, la zona di William è arredata meglio perché lui è l’erede e Harry solo il pezzo di ricambio, tutto quel che già sappiamo. Ma il tutto serve da introduzione al gran momento: Carlo che entra nella cameretta ad annunciare che Diana è morta.

Lasciamo stare che Harry abbia a quel punto già detto che purtroppo a causa del dolore ha rimosso molti ricordi (il Marcel Proust che questo secolo si può permettere), epperò rammenti in dettaglio ogni parola e pensiero del momento più traumatico e da rimuovere di tutti: quello in cui il padre gli dice che la madre è morta. La sciatteria imperdonabile è: dov’è William?

È lì mentre Harry s’illude che la madre sia sopravvissuta all’incidente? Gliel’ha detto separatamente, il padre, chiamandolo fuori dalla stanza prima? Così parrebbe: in un rigo, alla fine dell’atto unico con un solo protagonista in cui Harry rievoca il padre che lo sveglia all’alba per dirgli di Diana, Harry dice che sapeva che a William era già stato detto, nell’altra stanza. Ma ci hai appena detto che la camera era una, la dividevate, «a William la metà più grande», è mattina presto, dormivate nello stesso – direbbero gli agenti immobiliari – ambiente: come fa il compagno di stanza a sparire da questa scena? All’accademia del memoir fondata da Moehringer (non impareremo mai abbastanza dagli americani a monetizzare), abbondantemente ringraziata da Harry per l’aiuto ricevuto, non notano le incongruenze?

Non importa, e lo sappiamo. Il libro della Nicole Minetti inglese andrà benissimo, sebbene non abbia la presentabilità extra-autogrill che ebbe Agassi. Sebbene non abbia alcuna credibilità nella costruzione del personaggio o delle scene o dei monologhi interiori.

Il dodicenne Harry che quando stringe la mano del padre subito dopo la morte della madre pensa: ho fatto male, ho dato ai paparazzi ciò che volevano – con la consapevolezza d’un quarantenne studioso dei media.

Il diciassettenne Harry che chiede come i tabloid possano condannarlo per aver fatto ciò che fa ogni adolescente – il primo adolescente della storia che guardi la propria identità adolescenziale avendo già lì pronti il distacco brechtiano e il senno di poi.

 

Non importa, perché il Grande Indifferenziato ci ha tolto gli strumenti per distinguere un libro ben fatto da una cialtronata, e perché lo leggiamo per quel che è. Una puntata di reality, in cui non contano le inverosimiglianze o la coerenza narrativa, ma solo il sentimentalismo, le emozioni, e il fatto che, prima di andare a dormire, noialtri si possa annuire soddisfatti ripensando ai confessionali: Harry, hai fatto un bel percorso.

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