Alta tensione tra Iran e Usa “35 ostaggi israeliani non valgono oltre 100 detenuti palestinesi”, la destra di Netanyahu ostacola le trattative a Gaza

Washington conferma di non volere una guerra aperta, l’attacco alla base Tower 22 non sembra destinata a rimanere impunita

Lorenzo Vita — 30 Gennaio 2024 ilriformista.it lettura 3’

Ci sono due immagini che affiorano dalle ultime 24 ore in Medio Oriente.

La prima riguarda le trattative per un nuovo accordo sulla liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.

La seconda è l’attesa per la risposta degli Stati Uniti all’attacco con cui i miliziani filoiraniani della Siria hanno colpito una base americana in Giordania uccidendo tre soldati di Washington. Due immagini molto diverse, eppure legate a doppio filo in quella grande crisi esplosa con l’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre e che si è progressivamente espansa oltre i confini di Gaza, incendiando l’intera regione. Per quanto riguarda il negoziato per liberare i rapiti, dai media dello Stato ebraico e arabi è filtrato un cauto ottimismo.

Israele-Hamas, lo scambio tra 35 ostaggi e oltre 100 detenuti palestinesi

Secondo Sky News Arabia, l’accordo discusso a Parigi tra i principali artefici delle trattative (Egitto, Israele, Qatar e Usa) dovrebbe prevedere un cessate il fuoco di 45 giorni, la liberazione di 35 ostaggi israeliani e il rilascio di un numero imprecisato di detenuti palestinesi (tra 100 e 250) attualmente nelle carceri israeliane. L’intesa ricalcherebbe dunque quella di novembre, almeno per i fattori dello scambio, ma con la differenza sostanziale nei numeri: sia dei giorni di tregua che del numero di detenuti da liberare per ogni ostaggio israeliano. Numeri che non possono essere particolarmente apprezzati dall’ala più radicale della maggioranza di governo, al punto che ieri, nonostante i funzionari dello Stato ebraico abbiano confermato un’accelerazione nel negoziato, sono arrivate anche delle frenate sul possibile raggiungimento dell’accordo. “C’è ancora una lunga strada da percorrere” avevano detto alcuni esponenti del governo israeliano. Mentre dall’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu hanno smentito le indiscrezioni sull’accordo parlando di “condizioni inaccettabili”.

Il futuro della Striscia: no a ricostruzione colonie israeliane

Se le trattative sul fronte degli ostaggi proseguono, continuano anche quelle sul futuro della Striscia di Gaza. Ieri, il sito Axios, molto informato sui canali diplomatici tra il governo Netanyahu e Washington, ha rivelato che il ministro della Difesa Yoav Gallant ha assicurato le controparti dell’amministrazione Usa sul fatto che i militari bloccheranno qualsiasi ipotesi di ricostruzione di colonie israeliane nell’exclave palestinese.

Il timore statunitense è legato non solo alle idee dell’ultradestra israeliana, molto influente nelle scelte dell’esecutivo, ma anche alla zona cuscinetto che lo Stato ebraico sta realizzando nella Striscia di Gaza. Si tratta di una lingua di terra larga circa un chilometro che per Gallant è solo temporanea e legata a motivazioni operative. E queste garanzie sarebbero state dal ministro a due alti funzionari dell’amministrazione americana: l’ambasciatore in Israele, Jack Lew, e l’inviato per gli affari umanitari, David Satterfield. Anche Netanyahu, nelle ultime dichiarazioni a riguardo, aveva smentito l’ipotesi di insediamenti israeliani a Gaza e dintorni.

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I tre soldati Usa uccisi e la tensione alle stelle con l’Iran

Tuttavia, i media Usa avevano acceso di recente i riflettori su quest’area nel territorio palestinese. Per Washington si tratta di un punto decisivo, anche perché la conclusione della guerra viene percepita con sempre maggiore urgenza da buona parte degli apparati dell’amministrazione guidata da Joe Biden. La crisi che ha come epicentro il conflitto a Gaza si sta espandendo a macchia d’olio in tutto il Medio Oriente. E con la morte dei tre soldati Usa in Giordania, la situazione rischia di avvicinarsi a un punto critico anche per l’ipotesi di un confronto diretto con l’Iran.

Le milizie sciite, che hanno in Teheran la loro mente, stanno alzando il tiro dallo Yemen all’Iraq fino alla Siria. La Resistenza Islamica in Iraq, legata all’Iran, ha inoltre rivendicato anche in lancio di droni verso Israele. E mentre Washington conferma di non volere una guerra aperta, l’attacco alla base Tower 22 non sembra destinata a rimanere impunita. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, John Kirby, ha parlato di una “risposta coerente”.

Lorenzo Vita

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