Victim blaming. La campagna contro Zelensky, un’altra richiesta russa esaudita
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L’ex presidente polacco Lech Walesa, in una lettera aperta a Trump, ha paragonato l’agguato nello studio ovale agli interrogatori della polizia politica.
Francesco Cundari 4 Marzo 2025 linkiesta-it lettura2’
Alla manifestazione per l’Europa del 15 marzo non sarebbe male se qualcuno salisse sul palco per leggere questa lettera, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette
La propaganda russa sulla guerra in Ucraina poggia sin dall’inizio su tre assunti fondamentali, ripetuti fino allo sfinimento: 1) il rovesciamento dei ruoli tra aggredito e aggressore, con le campagne sull’«accerchiamento» della Nato e la «guerra per procura» voluta dagli Stati Uniti; 2) la delegittimazione di Volodymyr Zelensky, con tutto il repertorio sull’«attore fallito» recentemente ripreso da Donald Trump, prima dell’incontro allo studio ovale, da cui è partita poi un’altra serie di attacchi dello stesso tenore, esplicitamente mirati a sostituirlo; 3) la destabilizzazione dell’Unione europea, attraverso varie specie di troll, non solo digitali.
Ora, senza ovviamente voler stabilire alcuna diretta correlazione con quanto precede, va detto che c’è in Italia un famoso geopolitologo che fino alla vigilia dell’invasione russa ha bollato come propaganda americana tutti gli allarmi lanciati dall’Amministrazione Biden sull’attacco imminente, con tanto di foto satellitari dei blindati ammassati alla frontiera, e ha passato i tre anni successivi a parlare di «guerra per procura» (punto 1), ha scritto ieri su un giornale, da cui peraltro è stata appena lanciata una manifestazione in difesa dell’Europa, che l’Unione europea è «cerebralmente morta» (punto 2) e in serata, non contento, è andato in tv a dire di Zelensky che quello che «ha combinato, non so quanto consciamente, alla Casa Bianca, certamente non va nell’interesse né suo né dell’Ucraina» (punto 3). Sto parlando, ovviamente, di Lucio Caracciolo, l’Alessandro Orsini con la pressione bassa, o se preferite l’Alessandro Di Battista istruito.
L’ultimo punto, le critiche al comportamento tenuto da Zelensky alla Casa Bianca, ennesimo caso di victim blaming anti-ucraino, è quello che mi colpisce di più, perché dallo scontro allo studio ovale è ripartita la campagna per sostituirlo, con la non piccola differenza che questa campagna, come del resto quasi tutte le richieste russe, è stata subito fatta propria dall’Amministrazione americana. Ma è stata anche avallata da diversi analisti e osservatori.
Mi pare però che la parola definitiva su questo tema l’abbia pronunciata ieri l’ex presidente polacco Lech Walesa, in una lettera aperta a Trump firmata anche da molti altri storici esponenti di Solidarnosc, tutti ex prigionieri politici, che nel testo affermano di avere seguito «con orrore e disgusto» lo scontro con Zelensky. Definiscono offensiva la richiesta di dimostrazioni di gratitudine, che è dovuta semmai «agli eroici soldati ucraini che versano il loro sangue per la difesa del mondo libero», e si dicono inorriditi anche dal fatto che l’atmosfera nello studio ovale ricordasse gli interrogatori dei servizi di sicurezza e dei tribunali del regime. «Anche i procuratori e i giudici incaricati dalla potentissima polizia politica comunista ci spiegavano che loro avevano tutte le carte e noi nessuna. Ci chiedevano di cessare le nostre attività, sostenendo che migliaia di persone innocenti stavano soffrendo a causa nostra. Ci privavano della nostra libertà e dei nostri diritti civili perché non accettavamo di collaborare con le autorità e non dimostravamo loro gratitudine».
Alla manifestazione per l’Europa del 15 marzo non sarebbe male se qualcuno salisse sul palco per leggere quella lettera, a beneficio di tanti dirigenti del Partito democratico (non tutti, fortunatamente), che hanno dimostrato di avere le idee assai confuse. A cominciare dalla segretaria.