Qualche dato non allarmista

per calmare il piagnisteo italiano. Trovare lavoro per i giovani è più difficile,

ma dopo qualche anno si torna ai dati fisiologici, nonostante la crisi

Ho molto apprezzato l’articolo “La ricchezza nascosta dietro la lagna pauperista degli italiani” (il Foglio del 26 marzo scorso) in cui vengono riportati e commentati i dati contenuti in un’indagine della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, da cui risulta che le famiglie italiane dispongono, in media, di situazioni patrimoniali, mobiliari e immobiliari, private e nette, migliori di quelle delle famiglie tedesche, francesi e spagnole.

Ovviamente la crisi anche da noi si fa sentire e sono peggiorate le condizioni di reddito e di vita, è calata l’occupazione ed è cresciuta la disoccupazione. A luglio 2012 il numero degli occupati era di quasi 23 milioni. Da allora l’occupazione è diminuita costantemente per una perdita complessiva di 302 mila posti di lavoro. A gennaio di quest’anno gli occupati erano 22 milioni e 688 mila – il livello più basso registrato a partire dal 2010 – con un calo dell’1,2 per cento rispetto a gennaio 2010, pari, in valori assoluti, a 265 mila occupati in meno. Il tasso di disoccupazione a gennaio 2010 era di 8,5 punti; nel giro di tre anni è salito di 3,2 punti portandosi all’11,7 per cento. Ma non è giustificata la rappresentazione di un paese ormai alla fame che i media e i talk-show ci propinano quotidianamente facendo soltanto dell’agitazionismo privo di senso e di sbocchi, come se una diversa politica, rivolta allo sviluppo anziché a un’equilibrata stabilità monetaria, fosse a portata di mano solo a volere il “cambiamento”. Eppure, anche nella nostra letteratura economica ci sarebbero documenti in grado non già di smentire, ma di ridimensionare gli allarmi eccessivi a cui si presta persino l’Istat.

Cominciamo dagli effetti delle politiche di contrasto della crisi sulle famiglie italiane. Spulciando il “Rapporto sulla stabilità finanziaria” della Banca d’Italia (Bollettino n. 4 del novembre 2012), troviamo dei dati sorprendenti rispetto ai soliti luoghi comuni. Cominciamo dai mutui immobiliari, “croce e delizia” di ogni intervista televisiva all’“uomo della strada”. Nell’agosto 2012 il loro ammontare complessivo era pari a 280 miliardi (per 2/3 a tasso variabile) pari al 18 per cento del credito bancario nel suo insieme (contro il 40 per cento della Francia, il 35 per cento della Germania e della Spagna, il 33 per cento della media dell’Eurozona). La ricchezza finanziaria delle famiglie era pari a 3.600 miliardi di euro (un multiplo del pil). La maggior parte delle attività finanziarie era costituita da strumenti a basso rischio (50 per cento riserve assicurative e previdenziali, 20 per cento obbligazioni pubbliche o bancarie, la quota restante in azioni o partecipazioni a fondi comuni). I debiti finanziari delle famiglie, in rapporto al reddito disponibile, erano rimasti praticamente invariati (65 per cento). La quota di famiglie vulnerabili (quelle per cui gli interessi sui debiti sono superiori al 30 per cento del reddito disponibile) era pari al 2,2 per cento del totale (in sostanza stabile nel 2012 rispetto al 2011). Considerando il solo reddito monetario la quota di famiglie vulnerabili era pari al 3,6 per cento, mentre solo lo 0,6 per cento dei nuclei famigliari versava in condizioni di sovraesposizione debitoria (quando cioè non si riesce più a fare fronte agli impegni e si presenta un perdurante squilibrio fra debito e patrimonio liquidabile).

Nei giorni scorsi è scoppiato il caso dei laureati disoccupati. Una trasmissione televisiva ne ha persino intervistati due: uno era laureato in Scultura in legno, l’altra in Lettere classiche. Si faccia avanti chi potrebbe assicurare a questi due giovani un’occupazione. Ma le maggiori difficoltà esistono e vengono segnalate anche nel recentissimo XV rapporto di AlmaLaurea (il Consorzio interuniversitario di 60 atenei che dispone di una banca dati con 1,7 milioni di curricula di giovani laureati e ne segue le sorti occupazionali dopo uno, tre e cinque anni dalla conclusione del ciclo di studi). E’ bene sottolineare, tuttavia, che per i laureati intervistati a cinque anni dal titolo il tasso di disoccupazione, secondo il rapporto, si riduce a valori “fisiologici” (6 per cento), nonostante la crisi. Questo è sicuramente un dato positivo – è una nostra considerazione – perché dimostra che, nella generalità dei casi, la crisi economica ritarda l’accesso al lavoro rispetto a tempi di attesa in precedenza più brevi, ma che, trascorsi questi anni difficili (in cui svolgono lavori precari), i giovani laureati trovano un impiego. Resta altrettanto vero che, a un anno dal titolo, gli occupati (comprendendo anche coloro che sono in formazione retribuita), seppure in calo, sono attorno al 70 per cento fra i laureati di primo livello, al 72 fra quelli specialistici e al 60 per cento fra gli specialistici a ciclo unico. Non si dimentichi che fra questi ultimi il tasso di occupazione è più basso perché più elevata è la quota di quanti risultano impegnati in formazione non retribuita (soprattutto fra i laureati del gruppo giuridico).

A cinque anni, l’occupazione indipendentemente dal tipo di laurea è prossima al 90 per cento. Un dato, questo, che merita di essere segnalato a fronte delle tante leggende metropolitane che accompagnano, spesso caricandolo di retorica, il dibattito sull’occupazione giovanile. Da ultimo il caso delle banche, messe alla gogna come le vere responsabili della crisi, ma favorite dalle politiche dei governi. E’ bene tenere presente che il nostro sistema bancario (dato del giugno 2012) è esposto verso le amministrazioni pubbliche per 351 miliardi (110 miliardi in più rispetto al settembre 2011) a fronte di un’esposizione complessiva del sistema bancario dell’area dell’euro di 425 miliardi. Ciò significa che le famigerate banche in questi ultimi mesi si sono accollate il rischio di buona parte del nostro debito pubblico.

di Giuliano Cazzola, 2/4

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