Il totem della cassa integrazione non regge

alla prova sviluppista. Sindacati, partiti e la caccia forsennata

ai soldi per l’ammortizzatore

Parlano Boeri, Dell’Aringa, Ichino e Manghi

L’esame parlamentare del Documento di programmazione economica e finanziaria 2013 (Def), da concludere entro la fine del mese perché sia sottoposto anche all’Unione europea, è appena partito in salita. Non soltanto per le polemiche sull’Imu (il cui gettito previsto è stato reso “permanente” dal governo Monti e che tutti i partiti invece chiedono di rivedere), ma anche per la corsa forsennata e molto mediatizzata a caccia delle risorse necessarie per rifinanziare la cassa integrazione (cig) in deroga, ammortizzatore sociale a carico di stato e regioni. Le regioni sono convinte che per rifinanziare la cassa in deroga servano almeno 2,7 miliardi di euro. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero scommette su 2,2 miliardi. Ma i tecnici del ministero del Lavoro rifiutano gli eccessi di allarmismo e reputano che, al netto delle pretese degli enti locali e dei sindacati, possa essere sufficiente per il 2013 un altro miliardo di euro, oltre al miliardo e mezzo già stanziato con l’ultima legge di stabilità; a meno che il prossimo esecutivo non voglia estendere il perimetro dell’applicazione di questa misura, che già a oggi sostiene il reddito dei quasi centomila addetti delle aziende sotto i 15 dipendenti.

Intanto, non soltanto a livello accademico, ci si interroga sull’utilità della cig, soprattutto di quella in deroga che entra in campo quando non sono applicabili cig ordinaria (prevista nel caso di eventi temporanei e non imputabili a datore di lavoro o lavoratori, che colpiscono l’attività aziendale) e straordinaria (nel caso di processi di ristrutturazione o procedure concorsuali). Anche da sinistra la risposta ricorrente è che, superata l’ultima coda della crisi, si deve riformare uno strumento che è soltanto una forma di mobilità malcelata, capace persino di rallentare il ricollocamento dei lavoratori. Il perché, con annessa soluzione, lo spiega al Foglio Tito Boeri, economista dell’Università Bocconi: “Penso che la cassa integrazione in deroga, come quella straordinaria del resto – dice il direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti – non responsabilizzi le imprese. Quindi si presta a ogni abuso”. E non soltanto perché è quasi totalmente a carico dello stato. “Sono strumenti con valenza temporanea che finiscono però per essere applicati a crisi industriali strutturali”. Cioè ad aziende decotte. Meno diplomatico il giuslavorista Pietro Ichino, passato in questa legislatura dal Pd alla montiana Scelta civica: “Se il lavoro in quella azienda non c’è più, allora si deve chiudere il rapporto di lavoro e non tenerlo in vita artificiosamente. Meglio usare i soldi spesi per la cig in deroga per potenziare l’Aspi, il nuovo trattamento di disoccupazione universale”. Più tranchant è il sociologo Bruno Manghi, già responsabile dell’ufficio studi della Cisl: “E’ fatta talmente male che spinge il lavoratore verso il sommerso. Detto questo, discutiamo da 30 anni di questo argomento. Ma sarebbe da folli cambiare le regole in questo momento di crisi. Si crea soltanto confusione. Eppoi servirebbero governi e sindacati con le palle per affrontare questi nodi. Ci sono?”. I tempi rendono difficili queste riforme. Risultato? “La situazione”, ammette Boeri, è talmente drammatica che si devono trovare i fondi per la cig. In teoria, sarebbero da seguire politiche di ricollocamento, ma quando l’attività e il lavoro non ci sono, queste danno scarsi risultati”.

Il part time non dev’essere più un tabù

Eppure sono in pochi a credere che la cig in deroga riesca, in una fase dove le industrie ottimizzano i processi produttivi riducendo le maestranze, a tenere legati il futuro del lavoratore e quello delle aziende. Per questo Boeri consiglia di seguire il modello tedesco. La Kurzarbeit (il part time), infatti, da un lato “responsabilizza le imprese facendo pagare loro costi più alti in caso di intervento straordinario. Tanto da spingerle a uscire prima da questo regime. Dall’altro, se ci sono commesse, impone all’operaio di andare in fabbrica. Situazioni a zero ore non esistono”. Carlo Dell’Aringa, economista del lavoro e deputato del Pd, invece, si chiede perché “non si possano trasformare gli ammortizzatori sociali in incentivi per l’occupazione o per l’aggiornamento. Se si vuole assumere un lavoratore con ancora un anno di mobilità, perché non si aiuta il datore di lavoro con la metà di quel contributo?”. C’è un’altra priorità: “Manca un soggetto unico che gestisca le politiche del lavoro – dice – La formazione è quasi sempre offerta dai privati. L’erogazione di sussidi è un compito che si spartiscono regioni, sindacati e l’Inps. E guai a chiedere l’istituzione di un’agenzia nazionale per evitare una dispersione di funzioni, perché poi tutti rivendicano il loro ruolo”.

Riorganizzare l’erogazione del welfare, anche secondo Bruno Manghi, è la vera priorità: “Non c’è nulla di impossibile. Forte del mandato di Donat-Cattin, Gianni Billia approfittò dei processi di informatizzazione per ricostruire dalle fondamenta prima l’Inps, poi Inail e l’Agenzia delle entrate”. L’economista del Pd Dell’Aringa aggiunge che, proprio grazie a quel processo di informatizzazione, enti previdenziali e Agenzia delle entrate “ancora oggi sono strutture d’avanguardia, con un personale altamente specializzato. Allo stesso modo si possono potenziare i centri per l’impiego. Se l’obiettivo è quello di veicolare l’offerta, preparare ai colloqui e controllare chi percepisce gli aiuti, mi spiegate come ci riesce un operatore italiano, che ha in carico 450 persone, mentre un suo collega tedesco o inglese deve occuparsi al massimo di 40 lavoratori?”.

Il bocconiano Boeri invece sottolinea la necessità di fare chiarezza tra fase di “outplacement”, cioè la consulenza alle persone in uscita dall’azienda, e quella di sostegno al reddito. Per il docente sarebbe meglio usare i fondi destinati alla cig “per un sussidio universale che valga per tutti. E che, in momenti di bassa occupazione come questa, aiuti anche ad accelerare i consumi. Con l’Aspi c’è stato qualche passo avanti, ma oggi sono pochi i lavoratori che ne hanno accesso. E tutto questo non esclude un ruolo dei privati, ai quali però vanno concessi incentivi appositi per evitare che ricollochino soltanto ‘i casi più facili’, i lavoratori con più mercato”. Anche Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università Statale di Milano, in un editoriale sul Corriere della Sera di martedì scorso indicava nell’Aspi, l’Assicurazione per l’impiego, introdotta dalla riforma Fornero, lo “schema” con cui anche “altri paesi stanno fronteggiando la crisi dell’occupazione” al fine di tutelare il reddito. In questo modo, scriveva Ferrera, “si eviterebbero erogazioni a perdere, da un lato, e si allargherebbe la platea dei potenziali beneficiari, dall’altro”.

I progetti per alleggerire il peso di uno strumento che a molti osservatori pare controproducente come la cig in deroga, insomma, non mancano. Le priorità si conoscono. Le risorse, però, scarseggiano. Così è facile guardare al futuro con un pizzico di frustrazione, visto che il prossimo governo rischia di non andare oltre il rifinanziamento della cassa in deroga e la stabilizzazione di altri esodati. Piattaforma minima che sembra avere il plauso di sindacato e Confindustria. “Perché entrambi – denuncia il senatore montiano Ichino – portano avanti una battaglia in termini di conservazione dell’esistente, retta dall’esigenza comune di tenere in piedi strutture produttive decotte, finanziate soltanto da laute commesse pubbliche”. E non è detto che le cose vadano meglio d’ora in poi. Chiosa il professor Boeri: “Se guardo alla campagna elettorale, ho la certezza che si tornerà indietro. Il Pdl rivuole la Biagi, mentre Grillo vuole abolirla. Qualcuno dovrebbe spiegare loro che la Fornero ha superato questa legge. Per non dire del Pd: pur di non spaccarsi anche su questo tema, finirà col non cambiare niente”.

di Francesco Pacifico

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