Letta, Napolitano, l’anti rupture e la vera storia

di come è nato l’incarico. La mediazione, i punti di equilibrio,

la sintesi tra Amato e Renzi e i guai (e la tattica) sul percorso del governo

Nuovo e vecchio. Giovane e anziano. Destra e sinistra. Zio e nipote. Rottamati e rottamatori. Direzione e controdirezione. Rupture e antirupture. Il film dell’investitura di Enrico Letta a presidente del Consiglio incaricato comincia lo scorso 25 febbraio con una dura telefonata di Giorgio Napolitano e si conclude 58 giorni dopo con una promettente stretta di mano tra il capo dello stato e il vicesegretario del Pd. In questo lungo arco di tempo nel centrosinistra è successo di tutto (azzeramento di un gruppo dirigente, dissoluzione di una coalizione, dimissioni del segretario, lotte intestine, candidature bruciate, pugnalate alle spalle). Ma al netto delle piccole e grandi esplosioni che hanno messo a rischio la vita stessa del Pd l’elemento di svolta che ha permesso a Letta di arrivare al Quirinale con il compito di creare un nuovo esecutivo è stato prima di ogni altra cosa la progressiva maturazione nel Partito democratico di quella che in fondo era l’unica strada possibile per evitare elezioni e dare una guida al paese: non un surreale governo del cambiamento con Grillo e Casaleggio (a quanto pare non ci sono più spiragli) ma un semplice (per quanto drammatico) accordo con il Caimano.

Di quella svolta e di quell’improvviso cambio di direzione (il 6 marzo, ricorderete, Bersani diceva ancora che non sarebbero mai stati “praticabili né credibili in nessuna forma accordi di governo fra noi e la destra berlusconiana”) Enrico Letta è stato il vero protagonista del Pd. E per capire il percorso fatto di mediazioni, cuciture, sintesi, compromessi (e non di super e rottamatrici rupture alla Matteo Renzi) che ha portato il vicesegretario ad arrivare a un passo dalla formazione del governo (le consultazioni cominciano oggi, la strada è difficile e probabilmente occorrerà attendere il ritorno in Italia di Berlusconi, previsto per venerdì) bisogna riavvolgere il nastro e unire i puntini mettendo insieme i cinque passaggi che hanno determinato prima il cambio di rotta del galeone del Pd e poi il cambio del timoniere. Cinque date: 25 febbraio, 22 marzo, 29 marzo, 9 aprile, 23 aprile. Perché, certo, naturalmente Letta non sarebbe arrivato al punto in cui si trova oggi senza il suo bagaglio di esperienze (ministro nei governi D’Alema e Amato nel 1998 e nel 1999, sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio tra il 2006 e il 2008, vicesegretario del Pd dal 2009). Ma se c’è una ragione per cui Napolitano ieri ha scelto in extremis il suo nome per Palazzo Chigi è anche perché sa che il vicesegretario non è soltanto un perfetto mix tra Amato e Renzi (pensateci) ma è anche l’unico punto di equilibrio possibile per ricercare “soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale” senza far scoppiare la pentola a pressione del Pd.

L’imposizione della Letta via

Il film della imposizione della “Letta via” all’interno del Pd comincia il 25 febbraio quando Enrico Letta, dopo aver detto in televisione a commento dei primi exit poll elettorali che “con questi numeri bisogna tornare presto alle elezioni”, riceve una dura telefonata dal Quirinale con la quale il presidente invita il Pd a raddrizzare subito la rotta e a evitare di insistere sul ritorno alle urne. Letta recepisce il messaggio e già nel pomeriggio (andatevi a vedere le cronache) cambia linea (elezioni no) e continua a declinarla anche nelle settimane successive, attraverso una formula un po’ politichese ma che diventerà maggioritaria all’interno del Pd: “Qualunque cosa succeda bisogna cambiare la legge elettorale prima di tornare al voto”. Tradotto: un governo bisogna farlo. Passano i giorni, Bersani continua a seguire Casaleggio, il Pd comincia a sospettare che il governo del cambiamento con i voti di Grillo sia un pochino complicato, Letta inizia a convincere Bersani che il governo lo si fa solo dialogando con il Caimano e apre due canali diplomatici importanti: uno personale con il Pdl (Letta ogni giorno si messaggiava con Alfano, e poi naturalmente c’è lo zio Gianni) e un altro meno personale con la Lega (è stata la lettiana De Micheli, grande amica anche di Fedele Confalonieri, a costruire un rapporto con Maroni attraverso triangolazioni quotidiane con il leghista Giancarlo Giorgetti). Risultato: mentre Bersani ufficialmente dice “mai con il Caimano”, il Pd inizia in segreto a fare quello che poi gli avrebbe chiesto di fare ufficialmente Napolitano durante le consultazioni. Lo fa ma non lo dice. Ed è anche questa una delle ragioni che hanno trascinato Bersani in una trappola che l’ex segretario del Pd si è sostanzialmente costruito quasi da sé. E tutto, in un certo modo, accade tra il 22 marzo e il 29 marzo: altre due date importanti per capire come è nata la nuova direzione del Pd.

Ventidue marzo, giorno di consultazioni: Pier Luigi Bersani, dopo un lungo colloquio con il presidente della Repubblica, si presenta di fronte ai cronisti al Quirinale e per la prima volta non esclude di voler rivolgersi anche al centrodestra per cercare di formare un governo. E’ il primo successo della Letta via. Successo decisamente parziale, considerando il risultato ottenuto dalle successive consultazioni avviate dal pre-incaricato Bersani (quelle con il Wwf, con Saviano e con il Touring Club): “Non risolutivo”. Passano giorni, la posizione di Bersani si indebolisce e nel Pd, complice anche la discesa in campo di Renzi che invita a non perdere tempo e a scegliere se fare o no un governo con il Pdl, si rafforza il modello “soluzioni condivise” di Enrico Letta. E così arriviamo alla quarta data, che poi è la vera svolta che segna, anche plasticamente, il primo formale passaggio di consegne tra segretario e vicesegretario. E’ il ventinove marzo, Napolitano conclude la sua ultima fase di consultazioni. Bersani rimane nella sua casa di Bettola e al Quirinale questa volta il Pd manda Letta. Sono le diciotto e trenta e il vicesegretario esplicita per la prima volta la nuova via. E quella che all’inizio si presenta come una semplice apertura si tradurrà nei giorni successivi in una nuova direzione. “Il Pd appoggerà la proposta che farà il presidente”, dice il vicesegretario alla fine delle consultazioni (“appoggerà”, non valuterà) e a poco a poco sarà quella la posizione che si imporrà all’interno del partito e che si materializzerà prima con il clamoroso incontro tra Bersani e il Caimano (c’era anche Letta, era il 9 aprile) e poi con la drammatica svolta della direzione di martedì scorso (23 aprile): quando dopo le dimissioni di Bersani e Bindi il partito approverà la delega in bianco al Quirinale. E il senso del documento richiama le parole usate da Letta quel pomeriggio al Colle: “Il Pd appoggerà la proposta che farà il presidente”. Ovvero una e solo una: le larghe intese con il Pdl (linea che tra l’altro il vicesegretario aveva fatto emergere in maniera indiretta anche prima della campagna elettorale quando, era il 12 luglio 2012, si fece scappare quella frase rivelatrice che indignò le gazzette manettare: “Preferisco che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo”).

La squadra, la gaffe, i profili

Questo il film, e dopo il film c’è tutto il resto e ci sono ovviamente i fotogrammi che verranno registrati nelle prossime ore, quando cioè il presidente del Consiglio incaricato proverà a formare un governo. E qui la partita è doppia: da un lato bisogna capire a che condizioni il Pdl intende far partire un governo (“è ovvio che il centrodestra in queste ore farà molta tattica, bisogna aspettare il ritorno del Cavaliere”, confida al Foglio il deputato lettiano Francesco Boccia); e dall’altro bisogna capire se il Pd reggerà l’urto di assumersi la responsabilità storica di costruire un governo politico con il centrodestra (storica, già: ché in fondo in Italia per ripescare un governo formato dalle prime due forze di maggioranza e di opposizione bisogna tornare al 1946, ai tempi del governo De Gasperi con Togliatti ministro). La partita non è semplice, ovvio. Ma in realtà Napolitano ha scommesso su Letta (e non su Amato) proprio perché convinto che il suo profilo sia l’unico che abbia la capacità di unire tanto il centrodestra quanto il centrosinistra. Il centrodestra perché con Letta al governo anche la Lega sarebbe disponibile a prendersi la sua parte di responsabilità (cosa che non avrebbe mai fatto con Amato). Il Pd perché con Letta – che rappresenta una sintesi perfetta tra i due grandi patti di sindacato presenti nel Pd, quello formato dei vecchi colonnelli e quello formato dai nuovi rottamatori – la bomba nascosta dentro la pentola a pressione del partito (la scissione) sarebbe di fatto disinnescata, complice il fatto anch’esso storico che con Letta per la prima volta ci sarebbe un esponente del Pd alla guida di Palazzo Chigi. La partita è complicata, nel Partito democratico a dire il vero non c’è grande ottimismo sulla durata del governo e non saranno pochi nei prossimi giorni ad accusare Letta di essere un presidente a sovranità limitata (e la gustosa gaffe fatta dal vicesegretario al Quirinale, che per un attimo ha confuso il presidente della Repubblica con il presidente del Consiglio, “mi sono sorpreso di fronte alla telefonata ricevuta dal presidente del Consiglio”, rischia di passare come la versione aggiornata del famoso bigliettino inviato nel 2011 da Letta a Mario Monti, quello del “Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile”).

Nonostante ciò il governo alla fine dovrebbe nascere (la fiducia è prevista entro martedì e ieri Letta studiava una squadra snella con massimo 18 ministri, molti rappresentanti degli enti locali, da Chiamparino a Delrio, e con dentro sia Alfano sia Monti) ma oggettivamente più che il centrodestra il problema rimane il Pd. Napolitano, come ha ricordato ieri Renzi al Foglio, ha inscritto il Partito democratico dentro un nuovo perimetro. Un perimetro però anomalo, in cui per la prima volta il Pd dovrà capire se riuscirà a vivere senza avere più il collante dell’antiberlusconismo. La sfida è complicata. Ma se Letta la vincerà, anche per il Pd potrebbe davvero cominciare una nuova stagione. Chissà.

di Claudio Cerasa   –

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