..e cosa farà Berlusconi..

E’ stato a un passo da Piazzale Loreto (Prodi, Rodotà).

Se l’è cavata. Staccherà la spina presto o sfrutterà fino in fondo la svolta di Napolitano?

Statista o venditore? Silvio Berlusconi si trova in una di quelle situazioni che in genere mal sopporta, uno di quei momenti che forse lo infastidiscono, Giulio Tremonti lo definirebbe con enfasi letteraria “un tornante della storia”, anche se in questo caso è di una storia personale, e di una biografia politica, per quanto ingombranti, che si parla. Statista o venditore? E’ partito per gli Stati Uniti d’America senza ancora avere scelto, il Cavaliere. Torna domani senza aver deciso se il governo che sta per nascere intorno a Enrico Letta è uno di quegli investimenti duraturi, come per lui sono stati il Milan o le televisioni, o se invece questo governuzzo, con la svolta voluta da Giorgio Napolitano, sono soltanto il preludio rilassato di una nuova rottura, di un ritorno alle antiche abitudini, alle vecchie danze un po’ folli e un po’ logore: la pugna con i magistrati, le condanne, le elezioni, le prescrizioni, i muscoli, la piazza, il livore, il consenso. Tanti cerchi di fuoco nei quali far saltare l’Italia e saltare lui stesso, ma ormai all’età non più tenera di settantasette anni.

I processi di Milano precipitano rapidamente verso la conclusione, malgrado la speranza che vengano trasferiti a Brescia, malgrado il miraggio della prescrizione che alimenta l’indecisione e pure l’incertezza su quali siano le mosse migliori. Tutto si gonfia in una gravida suspense. Potrebbero esserci delle spaventose condanne: frode fiscale in Appello nel caso Mediaset, prostituzione minorile in primo grado nel caso Ruby… Che fare? Uomo politico o imputato a vita? Statista o venditore? Afferrare la mano di Napolitano e Letta o far precipitare tutto ancora una volta? La Corte di cassazione si prepara a decidere sul trasferimento dei processi da Milano, dove stanno arrivando a sentenza, a Brescia, dove dovrebbero ricominciare davanti a nuovi giudici. E già si agita lo spettro della condanna e della decadenza dal mandato parlamentare, paura vera.

 Ma per la prima volta Berlusconi non è presidente del Consiglio, non è nemmeno personalmente al governo, ma è l’alleato, il secondo pilastro responsabile, il socio necessario di un’operazione politica benedetta dal presidente della Repubblica, un governo sobrio e perbene che ha l’obiettivo unico di salvare l’Italia dal pozzo nero della crisi economica e della regressione civile, un esecutivo di prospettiva e d’indirizzo costituente. L’attacco giudiziario nei suoi confronti, adesso, in questo contesto di pacificazione, risulterebbe incongruo, persino beffardo, agli occhi di tutti. Le eventuali condanne sarebbero un fatto minore anche sui quotidiani, sui mezzi di informazione, per strada, tra la gente. E fuori dal governo, senza responsabilità dirette, il Cavaliere potrebbe dunque infischiarsene delle condanne e tirare dritto, legittimato dall’opera di un esecutivo responsabile, voluto dal presidente della Repubblica, coccolato dall’establishment europeo e non solo. Il conflitto con la magistratura e tutto il carico d’accuse, udienze, avvocati, tribunali e sentenze sarebbero soltanto il rugginoso residuato bellico di un’epoca ormai conclusa, archiviata dalla storia. Dunque ecco il dubbio che turbina nella testa di Berlusconi, ma anche dei suoi amici come Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset, l’uomo dei consigli più assennati: statista o venditore? Questo è il problema. Al Cavaliere cinico e fantasioso, all’uomo che interpreta la politica come uno sport agonistico, o una rischiosa avventura imprenditoriale, non piace scegliere. Lui non sa decidere, è doppio, secondo alcuni persino bipolare. Lo statista vuole investire nel governo di Enrico Letta, il nipote del suo amico Gianni. Il venditore vuole sfasciare tutto e imporre ancora se stesso in un’anomalia senza fine.

Il Berlusconi statista in questi giorni è quello convincente, e forse persino convinto, che in televisione dice: “Serve un governo forte, solido e duraturo, che resista nel tempo”. Quello che poi aggiunge, compunto: “Un governo capace di fare subito i provvedimenti che servono al paese”. L’altro Berlusconi, il venditore, è invece quello dell’Imu “che si può restituire perché sono appena quattro miliardi”, quello che intervistato in America dove si trova da qualche giorno dice che “bisogna cambiare Equitalia”, quello che vorrebbe giocare al rialzo sui nuovi ministeri, che allude alle elezioni anticipate, che organizza una piazza alla settimana, e che, più da imputato che da uomo politico, insegue l’orizzonte del voto perché immagina una prospettiva diversa, alternativa, e per lui fantasiosamente dolce: quella che lo porta direttamente al Quirinale, che lo consegna alla massima carica istituzionale a bordo della Lancia Thesis e scortato dai corazzieri in motocicletta.

Un presidente condannato per prostituzione minorile, possibile? Quantomeno difficile. Così il dubbio si infittisce e si fa tormento amletico: fare lo statista o tornare venditore? Sembra strano, è vero, ma lui che ha scoperto il funzionalismo in politica, e ha semplificato a modo suo i meccanismi del Palazzo e della partitocrazia polverosa della Prima Repubblica, lui che ha inventato il centralismo carismatico, in genere sfugge al momento della decisione. Il Cavaliere non sa scegliere. Per assurdo che possa apparire, Berlusconi, anarchico monarca, lascia che sia sempre l’incastrarsi degli eventi a determinare, alla fine, in un pazzotico caos creativo, le sue comunque sempre mutevoli inclinazioni. “Decide solo quando ha un’autostrada sgombra davanti”, dice Fabrizio Cicchitto, che lo conosce da tanto di quel tempo da potersi anche permettere un sorriso d’ambigua ironia mentre pronuncia queste parole. “E finché non ha deciso, finché gli è caratterialmente impossibile di prendere una decisione, percorre contemporaneamente tutte le strade possibili, tutte insieme, anche se evidentemente non portano nello stesso posto”, aggiunge Daniela Santanchè, la pasionaria che lo adora, la donna ormai ammessa fin dentro le riunioni più esclusive e segrete del Castello. Statista o venditore?

“Siamo in testa nei sondaggi”, dice ogni tanto ai suoi uomini. E mentre pronuncia queste parole, nei momenti di più assoluta sincerità, Berlusconi ha indosso il suo sguardo più vero. D’altra parte non si può guarire da se stessi, svolte, trasformazioni, fughe, paure e grandi cambiamenti non servono che a questo: ritornare all’origine, al punto di partenza. Così il Cavaliere indossa, talvolta, un’aderente maschera da statista compassato: “E’ il momento delle larghe intese”, dice ai giornalisti che lo intervistano, ed è convincente, persino convinto, quando dice che “con il Pd abbiamo parecchi punti in comune”.

Nel folto delle sue parole le larghe intese si rivelano un orizzonte già conquistato e il “Tutti per l’Italia” non è più soltanto un miraggio (“una bella idea di Giuliano Ferrara”): basta stendere il braccio per afferrarlo. Eppure, improvvisamente, quando parla del governo e del suo, personale, futuro, il Cavaliere ha come un lampo che gli attraversa lo sguardo. “Matteo Renzi? Il rinnovamento generazionale? Le nuove elezioni? Abbiamo appena eletto un presidente che ha ottantotto anni, mi sembra”. “Ci vuole esperienza per risolvere i problemi dell’Italia”. E si scorge la tentazione di alzare subito la posta, di riprendere quel balletto ambiguo e talvolta vincente che è il suo modo anomalo e ribaldo di stare nella politica: la voglia matta di contrattare al rialzo, di pretendere dei ministeri chiave nel nuovo governo, di insistere con la restituzione dell’Imu e con le promesse, anche quelle irrealizzabili, della campagna elettorale. “I miei nove milioni di voti non li tradirò mai”, anche a rischio di far saltare tutto. Statista o venditore?

E’ stato a un millimetro dalla morte. Prigioniero d’un lugubre isolamento politico ha rischiato di vedere il peggiore dei suoi incubi diventare realtà, ha quasi assistito all’incoronazione quirinalizia del nemico giurato Romano Prodi e di Stefano Rodotà, e negli ultimi due anni ha vissuto pericolosamente, in altalena, galleggiando tra fortune e rovesci comunque sempre sterili: dalla baruffa con Gianfranco Fini al cedimento di schianto del suo governo, alla nascita di quella tecnocrazia montiana che per lui non è stata Piazzale Loreto ma un letto di fiori e d’organza, al tradimento serpigno di una parte del suo Pdl, fino a quella capriola imbarazzante con la quale il Cavaliere ha fatto cadere il professor Monti agitando la bandiera grottesca della restituzione dell’Imu (“anche con i miei soldi se necessario”).

 Alterno statista e venditore, il 12 novembre del 2011 Berlusconi si è dimesso dalla presidenza del Consiglio “per senso di responsabilità” e per paura di fronte allo spread che sfiorava la quota di non ritorno dei 600 punti. E da allora è rimasto immobile sul pelo dell’acqua, grazie a Mario Monti che lo ha parificato al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: l’unico, Monti, che non lo ha mai isolato. Berlusconi ha nel suo animo entrambe le corde ed entrambe le sa suonare, sia quella (compiaciuta) dello statista che parlò di pacificazione nazionale a Onna, in Abruzzo, il 25 aprile del 2009, sia quella (furba) del venditore che adesso vorrebbe eliminare l’Imu e la Tares e non farle pagare agli italiani – chissà come – già dal giugno prossimo. Ma ora, con il governo di Enrico Letta che si appresta a nascere, il Cavaliere deve decidere, può scegliere: ha forse l’ultima occasione per trovare pace con se stesso e con il mondo che lo circonda, ha l’opportunità fortunosa di aprire una nuova fase nella storia della Seconda Repubblica che volge drammaticamente al declino: la sua Repubblica, il suo Ventennio. Un leader, un’epoca, un solo destino.

Statista o venditore? Il 24 ottobre 2012, in un famoso e rapidamente dimenticato discorso pubblico, Berlusconi disse che usciva dalla scena attiva della lotta per il potere, che investiva volentieri una nuova generazione del compito di crearsi una legittimazione (elezioni primarie) e di combattere nel solco di una tradizione popolare e liberale ormai quasi ventennale, con una nuova leadership. Sosteneva che bisognasse bloccare la sinistra dell’asse Vendola-Bersani, con le sue velleità veterolaburiste e neocollettiviste, con il benecomunismo che voleva ribaltare l’agenda Monti. Era una posizione politica realistica, che prendeva atto del già fatto e cercava, in condizioni dure, partendo da una sconfitta strategica del berlusconismo già consumata, di prefigurare un cammino futuro per un centrodestra che era sfasciatissimo: il Pdl impazziva e dentro il partito s’agitavano nell’ombra i coltelli più affilati, nasceva un partito nel partito chiamato “Italia Popolare”, con Beppe Pisanu elevato al rango di grande riserva della Repubblica, un mondo in subbuglio e a un passo dal complotto, dal regicidio, dalla destituzione cruenta del Cavaliere: come in tutti i momenti dissolutivi, anche nel mondo di Berlusconi, prima delle elezioni anticipate di febbraio, prima della sua violentissima repressione interna per via elettorale, erano infatti saltati i vincoli d’appartenenza, i rapporti anche più antichi e sedimentati, le coperture e le complicità.

Due giorni dopo il discorso del suo ritiro, Berlusconi si è poi presentato a Villa Gernetto, che non è sul lago di Garda e non è Salò, e ha cambiato posizione: dichiarazione di guerra alla Germania di Angela Merkel e al feldmaresciallo Monti, alla sinistra e a tutto il resto del mondo. Con questo senso: “Fanculo la solennità del passo indietro, io qui sto, comando io, e le nuove generazioni del centrodestra facciano un po’ di ammuina ma sulla mia linea che è quella di un ritorno in campo per sfasciare ogni cosa”. Risultato: Berlusconi s’indebolì in apparenza, quel che restava del Pdl cercò (senza successo) di metterlo in minoranza, ma poi siccome il Cavaliere è un grandissimo venditore riuscì funambolicamente, quasi per magia, a non perdere le elezioni e ha reincatenare al giogo tutti i suoi cavalli indisciplinati, i tanti che erano pronti a tradirlo dall’interno del Palazzo e del partito. Anzi, per un pelo non le ha vinte quelle incredibili elezioni di febbraio 2013 (“per uno 0,4 per cento”, ricorda sempre Denis Verdini, l’architetto di retrovia del berlusconismo). Così adesso il Cavaliere ha ricominciato a giocare, a bagolare, come un pendolo, tra tribunali e manifestazioni di piazza, aperture al dialogo e improvvise rotture, furbizie, calcoli e contorsioni che gli vengono naturali.

Fino a oggi, a queste ore in cui si forma – forse – il governo della salvezza nazionale voluto da quel Napolitano che Berlusconi è riuscito a fare eleggere dopo aver rischiato di vedere i suoi nemici Prodi o Rodotà assisi sul trono del Quirinale. Ha attraversato i primi cinquantacinque giorni di questa fragile legislatura nella perfezione tattica, il Partito democratico si è schiantato sulle sue contraddizioni e lui, il Cavaliere folle e fortunato, è tornato centrale come ai tempi d’oro. Un miracolo. E quasi non ci crede nemmeno lui. “Adesso ci vuole un comportamento opportuno”, tende a dirgli Gianni Letta, il gran visir, l’uomo dai consigli sempre pettinati. Occorre non gettare via tutto, non alzare la posta per eccesso di spavalderia: è necessario – viene detto a Berlusconi – non correre il rischio di essere di nuovo sospinti nell’angolo, nell’isolamento che prelude al disastro e alla fine ingloriosa. Riuscirà Berlusconi ad aprire una fase nuova? “La restituzione dell’Imu è una cosa facilissima, sono appena quattro miliardi”, è tornato a ripetere il Cavaliere dei manifesti elettorali, quello dei famosi e giganteschi 6x3. “Abbiamo un programma di otto disegni di legge già depositati in Parlamento. Le trattative per il nuovo governo dovranno partire da lì”, dice il Cavaliere immaginifico e azzardoso, quello che si gioca tutto, quello che o vinco tutto o perdo tutto, ma intanto tratto. “Non voglio nemmeno pensare all’ipotesi del fallimento di Enrico Letta”. Ecco, appunto, ma cosa farà il Cavaliere alla fine, il venditore o lo statista?

di Salvatore Merlo   –   @SalvatoreMerlo, 26/4

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