La red line applicata ai morti

In Siria ci sono più di 70 mila vittime, ma il numero non rileva.

Contano i metodi che il regime di Assad utilizza per sterminare il suo popolo. Anzi, nemmeno quelli

Lo chiamano il fiume della morte, dalle sue acque ormai emergono soltanto cadaveri. Tanti cadaveri. Di solito hanno le mani legate dietro la schiena, la bocca tappata dal nastro adesivo, il volto sfigurato dai colpi di pistola. Di solito sono corpi di ragazzi e di ragazze, perché questo è il Queiq River, il fiume che attraversa Aleppo, quella meraviglia di città che sta nel nord della Siria, dove fino a ieri si andava a studiare perché ha università rinomate, e che una volta era l’ultima tappa della via della seta, prima che la costruzione del canale di Suez rivoluzionasse le vie di trasporto e condannasse Aleppo a un’allegra solitudine. Negli anni Sessanta il Queiq divenne secco, perché i turchi, che stanno poco più a nord, s’inventarono dei progetti di irrigazione che prosciugarono il fiume, e ancora oggi gli agricoltori di questa regione non li hanno perdonati, digrignano i denti al solo menzionarli, pure se oggi l’acqua c’è, è stata presa dall’Eufrate, e il verde è tornato. Ma quest’acqua trasporta corpi morti, tanti corpi morti, ci sono centinaia di foto scattate lì, sulle rive del Queiq, con sacchi di plastica bianchi o neri, a seconda di quel che c’è, e volontari che vanno a recuperare i cadaveri. Tutti i giorni la stessa tragedia: dalla fine di gennaio a metà marzo sono state trovate e sepolte almeno 250 persone. Il 29 gennaio è considerato il giorno del massacro, il giorno in cui il Queiq è diventato il fiume dei martiri: 110 cadaveri, con colpi in testa, un corpicino di un bambino di undici anni, tanti poco più grandi, di adolescenti. Il Guardian, che ha pubblicato un reportage sul massacro, dice che le foto di quei corpi allineati sulle rive del fiume “sono immagini simbolo di quel che accade in Siria”.

In realtà questi due anni e più di repressione da parte del regime di Basher el Assad sono scanditi da immagini simbolo. Il 10 marzo scorso, sempre su quelle rive, c’è stato un altro massacro, altri 40 cadaveri, ma i nostri occhi sono ormai talmente assuefatti che per giorni molti si sono chiesti: sono morti nuovi o sono le immagini di gennaio? La propaganda ha trasformato la crisi siriana in una litania cinica di foto e video che non si guardano, di massacri che paiono tutti uguali, di notizie di stragi che sono prese con cautela – chi lo dice? I ribelli? Ah vabbé. I ribelli, quel nucleo di siriani che hanno iniziato la loro primavera due anni fa per ribaltare un regime che li opprime e li stermina senza remore, sono ormai sfigurati dalla presenza di al Qaida e degli islamisti che si sono infilati nella loro causa e l’hanno sostituita con la loro, che è quella della conquista jihadista di tutto il medio oriente. Il risultato è che quel che dicono i ribelli non è più credibile: se gli hacker possono entrare nel sistema dell’Associated Press e far collassare i mercati dando la notizia di Obama ferito in un attacco alla Casa Bianca, figurarsi che cosa si può fare con le immagini e le notizie da un paese in cui non si riesce quasi più a entrare – ogni frammento di verità si perde in un ciclo ininterrotto di manipolazioni. Quando una colonna di fumo si alza da qualche sobborgo delle città siriane, soprattutto a Damasco, non si sa più se a colpire è stato il regime o è stata al Qaida – e si finisce per non farci caso. Nell’indifferenza ci sono stati già più di 70 mila morti. Ci si può perdere in sottigliezze, in analisi sofisticate sulle brutture degli islamisti e delle loro tattiche, ma non si può cancellare l’unica verità inconfutabile: Assad sta sterminando il suo popolo.

Per venir fuori dal labirinto delle uccisioni di massa, l’occidente s’è inventato un suo filo d’Arianna: la “red line” sulle armi chimiche. Che è come dire: i morti in attacchi chimici sono più morti degli altri. Valgono di più, simboleggiano di più, allarmano di più. Quando, l’anno scorso, l’Amministrazione Obama ha iniziato a stabilire diverse sfumature di “linee rosse” (senza peraltro mai dire che cosa avviene una volta che la linea è oltrepassata, ma nessuno ha fatto domande, allora sembrava una conquista persino che ci fosse un limite a quello che Assad può fare contro il suo popolo), l’Atlantic, magazine liberal, scrisse: “I civili siriani devono sperare di morire nel modo giusto. La comunità internazionale non sembra preoccupata da quanti morti fa il regime, piuttosto dai metodi che usa per uccidere i suoi cittadini”. Dominic Lawson ha scritto nella sua column settimanale sul Sunday Times: “I continui massacri di uomini, donne e bambini con armi convenzionali hanno fatto crollare l’interesse dell’occidente. Un video tremolante su YouTube di un siriano che schiuma dalla bocca a causa di un attacco chimico ha avuto un effetto galvanizzante”. E ancora: “Proviamo ad accantonare per un attimo la bizzarria di una distinzione tra armi che demoliscono ogni forma di vita umana (accettabili) e quelle che la fanno smettere di respirare (inaccettabile); proviamo anche a non sottolineare che il gas sarin – a differenza delle bombe – ha un antidoto, l’atropina. Resta comunque un nonsenso morale cercare di tracciare una ‘linea rossa’ tra una forma di massacro e l’altra. E’ la distruzione che conta”.

Sia chiaro: l’atropina sarà anche un antidoto, ma le conseguenze a lungo termine dell’utilizzo di agenti chimici come il sarin, che nasce come un pesticida, sono atroci, basta un’unica esposizione per avere effetti deturpanti sul proprio organismo per sempre: Saddam Hussein lo usò contro i curdi ad Halabja con un blitz aereo, morirono cinquemila persone e 65 mila rimasero “ferite”. Si può non morire, per il sarin, ma il sistema nervoso va in tilt, si hanno paralisi temporanee, spasmi, allucinazioni, si fa fatica a respirare, a vedere, persino a piangere. Per tutta la vita.

Forse la linea rossa dell’occidente andava posta un po’ prima, anche perché il capo dei Joint Chiefs of Staff, Martin Dempsey, già a gennaio aveva ammesso che “prevenire l’uso di armi chimiche è un obiettivo quasi irraggiungibile”. Ma non c’è da preoccuparsi, perché pure adesso, ufficialmente, la linea rossa non è stata valicata. O forse è stata valicata ma non cambia nulla: il ritornello obamiano dice che la linea rossa superata è un “game changer” che farà rivalutare la strategia, con l’unico omissis che è quel che l’Amministrazione fa già da mesi, senza aver ancora trovato il modo di tenere insieme la cautela e l’ovvia convinzione che Assad debba andarsene.

Obama nel frattempo cerca le prove, non può correre il rischio di fare una guerra con le prove sbagliate, è un film che l’America ha già visto, non si può propinarlo uguale, da parte del presidente Nobel per la Pace poi. Ma per ottenere delle prove è necessario raccogliere campioni di pelle delle vittime o di terra dei luoghi in cui l’agente è stato utilizzato, e le tracce di sarin riconoscibili in laboratorio scompaiono in circa tre settimane. Cioè quando (e se) gli ispettori delle Nazioni Unite attualmente fermi a Cipro riusciranno ad arrivare dove ci sono stati gli attacchi, le prove non ci saranno più, e la linea rossa resterà soltanto quella che divide i morti dai morti più morti degli altri. A meno che l’utilizzo degli agenti chimici da parte del regime di Assad continui – e le notizie dicono che stanno continuando – ma è sempre un’“assurdità morale” doversi augurare di avere altri siriani che schiumano dalla bocca per riuscire a risvegliare le coscienze atrofizzate dell’occidente.

Come ha scritto sul Washington Post Anne-Marie Slaughter, che ha lavorato al dipartimento di stato della Clinton ed è a oggi una delle poche voci democratiche che non invitano alla cautela, la Casa Bianca dovrebbe rendersi conto che “the game has already changed”, Obama “dovrebbe avere ben chiaro il danno profondo e duraturo che si fa quando il gap tra le parole e i fatti diventa troppo grande per essere ignorato, quando coloro che hanno il potere si espongono non dicendo quello che intendono o non intendendo quello che dicono”, splendida riedizione della famosa frase di Bush “I mean what I say, I say what I mean”. Continuando a tollerare Assad che gasa il suo popolo, sostiene la Slaughter, Obama “sarà ricordato come il presidente che ha proclamato un nuovo inizio nei rapporti con il mondo islamico, ma che è rimasto a guardare un capitolo mortifero della stessa vecchia storia”.

C’è una linea rossa per i morti e un’ulteriore linea rossa sul numero di attacchi chimici tollerabili prima di uscire dal ritornello del “rivedere la strategia”. Eppure la cautela continua a prevalere, per i noti motivi che riguardano la specificità della crisi siriana, con le conseguenze negli equilibri della regione e nel rapporto con il primo padrino di Damasco: l’Iran. Ma c’è di più. L’Editorial Board del New York Times ancora qualche giorno fa scriveva che Obama deve fornire un piano chiaro di quel che vuole fare in Siria per contrastare la minaccia jihadista e per fermare il regime, ma le prove dell’utilizzo delle armi chimiche devono essere “compelling”, ci deve essere la certezza che non si sia trattato di “un incidente o di un fertilizzante”. E gli interventisti “non hanno ancora presentato un argomento coerente che dimostri che un approccio più muscolare può essere adottato senza trascinare gli Stati Uniti in un’altra lunga e costosa guerra”, cioè non c’è ancora un’alternativa a interventi come quelli in Iraq e Afghanistan. L’unica preoccupazione, insomma, è non fare la figura di Bush, poco importa se c’è un dittatore che da più di due anni fa la guerra al suo popolo, bombarda le città, manda Scud sul suo territorio, utilizza il sarin, organizza uccisioni di massa. Poco importa se l’interventismo liberale, prima che il pregiudizio verso il texano che non pronunciava bene nemmeno la parola “nucleare” cambiasse tutto (quello sì che fu un game changer), fosse un principio, un’idea, una visione, una conquista della sinistra.

di Paola Peduzzi

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