Compagno ultimo

In un mese Bersani e i suoi rigidi custodi hanno perso elezioni,

governo, Quirinale e forse pure la Ditta. Com’è potuta finire così?

“Ci hanno levato la briscola…” (Pier Luigi Bersani)

“Ma è vivere succhiando la vita dagli angoli…” (Samuele Bersani)

E così, non avendo potuto avere la vita che desiderava – essere, più o meno, il nostro quieto Hollande: ché il brio e l’estro Pier Luigi Bersani li riserva ai concerti degli AC/DC e dei Deep Purple, così che possa l’adrenalina pareggiare il conto di tante serate a bere “un birrino” con Errani e Migliavacca e Stumpo – con ripiegamento alessandrino prima che piacentino cerca almeno questo, per quanto sta in lui, l’ex leader del Pd: di non sciupare quel che resta nel troppo commercio con quello che del suo partito resta, partito di troppe parole a vuoto, via vai frenetico che la bussola ha fatto perdere e la rotta smarrire. “Farsi di nebbia”, come ebbe a dire in un’altra occasione – sfumare, togliersi dai riflettori: l’ennesimo leader di sinistra caricato del peso dell’ennesima sconfitta. “Si è incupito, si è indurito, si è ingessato”, racconta chi lo conosce bene, e gli vuole bene. “E’ andato un po’ in corto circuito”. Sulle sue spalle di Ultimo Comunista – il Compagno Ultimo – s’affollava fino al mese scorso il nanismo piddino convinto di farsi ministeriale e governativo; ora è calato il basto del fallimento: forse davvero l’ultimo possibile. A nessun altro che viene dalla storia comunista succederà – perché a nessun altro che si è consumato in quella storia sarà data ancora un’occasione. “Ho sempre pensato che la grazia presupponga la libertà e non la predestinazione”, spiegò una volta (e spiega ciò che adesso dalla gloria è precipitato in polvere) parlando del suo amatissimo Gregorio Magno, oggetto della giovanile tesi di laurea (110 cum laude). “Ristrutturò la chiesa dando a Roma quel primato che prima non aveva, fu capace di una grande predicazione popolare e, non ultimo, salvò l’Italia di fronte all’invasione dei Longobardi” – ché spesso Bersani la grandezza della metafora, rispetto alla povertà lessicale dell’esempio, ha richiamato. Così lui, il Compagno Magno, senza sorte avversa, senza infedeli attorno, senza il peccato politicamente mortale del creder vero ciò che vorremmo vero, avrebbe proceduto – diceva di voler procedere: ristrutturare il partito consegnandogli il primato morale e pratico del cambiamento, far accorrere abbondanti messi di voti con la predicazione della nuova sorte che s’avviava, salvare la nazione dal ritorno delle barbare armate berlusconiane. Nulla è andato come doveva andare – né il Quirinale né il governo né il partito: è stato davvero aprile, per il compagno Bersani, “il più crudele dei mesi”, e certo ha confuso, in quelle lacrime intraviste, e repentinamente negate, “memoria e desiderio”.

Ma com’è che è finita così – come nessuno credeva finisse, come neppure i suoi nemici osavano sperare che finisse? Da un lato Bersani, dall’altro il Pd – una sola cosa non sono stati, ma due cose almeno, forse alla fine dieci o venti. Chi conosce e frequenta entrambi – il ragazzo che miscelava normale e super alla pompa del babbo benzinaio, e il partito che ha provato a miscelare comunisti e democristiani: l’amalgama fatica e il reciproco sospettarsi si è mutato in regola – spiega che la china discendente cominciò tra lo scontro alle primarie con lo sgarzolino fiorentino e la campagna elettorale per l’accasamento a Palazzo Chigi. Dicono: “Bersani ha fatto un’ottima campagna per le primarie e una pessima per le elezioni: ferma, scontata, di chi dà tutto per acquisito”. Spiegano: “Vi ricordate il suo discorso al Capranica, nei giorni delle primarie? Disse che gli italiani dovevano sorridere, che bisogna ritrovare il buon umore, che eravamo una forza tranquilla e serena. La competizione con Renzi fu vera, e lui prese il mare aperto, fu fresco e curioso. Poi…”. Poi, la virata verso Palazzo Chigi – la linea d’ombra dove si è andato a perdere. “Dopo le primarie si è chiuso, barricato nel ‘tortellino magico’ degli emiliani e del gruppo dei fedelissimi. Lui era uno che parlava a 360 gradi, andava alle feste della Lega, ai meeting di Cl, aveva curiosità per il Pdl…”. E invece “una sorta di matassa emotiva lo ha bloccato quando si è sentito vicino al traguardo di tutta una vita, ha perso il tratto suo personale di curiosità e divertimento”. All’inizio della sua avventura aveva raccontato (ancora una metafora): “Quando un gruppo di persone sono su una barchetta in mezzo al mare e arriva la tempesta, si guardano in faccia e dicono: ‘A chi lo diamo, il timone? Chi è il più adatto per quest’impresa’. Quello è il leader”. Quello fu inteso Bersani, quello Bersani ha creduto di essere fino al crudele suo aprile. Voci dal Nazareno: “Tutto proiettato nel tentativo di fare il governo, non è andato a conquistare voti con la freschezza con cui ha conquistato quelli delle primarie. Non ha più parlato di sorrisi. Discorsi stereotipati per essere rassicurante, ma a forza di rassicurare poi le elezioni le perdi”. C’è chi rievoca “i giorni dell’ideona, tireremo fuori qualcosa che vi stupirà” – e poi la scoperta che si trattava della defiscalizzazione dei giovani che fanno impresa: ottima cosa, si capisce, ma un po’ ardita la speranza che possa stupire. Dentro il cerchio che doveva proteggerlo, dentro il suo labirinto di fedeli, il Minosse bersaniano si è perso. Troppo convinto della vittoria, troppo preservato, quasi murato dentro un’immagine che si voleva a tutti i costi di statista responsabile. “Quelli intorno a lui sono molto più rigidi di Bersani. Bravissime persone, per carità, ma tutte con una loro rigidità: chi di ex sinistra democristiana, chi di ex comunista. Rigidità che intorno al segretario si sono sommate, gli hanno chiuso l’orizzonte” – portavoce e ufficio stampa e giornaliste televisive di partito che sul tetto del Nazareno innalzavano canti alle sorti progressive della smacchiatura del giaguaro – con allegria, forse troppa fanciullesca allegria.

Ora è facile caricare la croce su certe spalle, forse ora è soltanto il momento di rese dei conti più profonde attese per anni. Ma certo sono diversi i Bersani visti negli ultimi mesi – e nel gioco delle maschere alla fine il leader del Pd da una maschera è stato imprigionato, fino a essere da questa maschera superato. Ognuno conosceva Bersani per l’imitazione strepitosa di Maurizio Crozza; ognuno infine pareva cercare in Bersani il Bersani di Crozza. La maschera aveva mangiato il volto, nonostante il leader avesse cercato di cavalcare il fenomeno fino a spingersi su un palco per giocare con il suo “doppio” a colpi di “bersanese” – il linguaggio scoperto e dottamente analizzato sul Sole 24 Ore dallo storico Miguel Gotor, tra l’evocazione del “sermo humilis” e l’annotazione su come sia “difficile non rimanere sorpresi dalla singolarità della sua lingua”. Seguì replica del diretto interessato e fulmineo innamoramento politico tra i due. Fu un percorso, quello linguistico di Bersani: dagli anni Settanta, “parlavo in modo che oggi mi fa quasi schifo: fra il politichese e l’ostrogoto”, all’approdo finale a raffinate ma perigliose tentazioni di metafore, “una figura retorica democratica, che sostituisce ai termini propri specialistici delle parole figure più accessibili e comprensibili ai più”. Un bellissimo gioco, se sei Borges o Kafka – un po’ più rischioso, se vuoi guidare un governo. Così “rimbocchiamoci le maniche” – e l’avambraccio virile si mostra pronto all’impegno (“posa molto donpepponesca”, segnalarono sugli appositi blog). Così, “cominciamo a sognare” – proprio nel momento dell’essere vispi e svegli. Così, “per giorni migliori” – indistinguibile tra un progetto di governo e la cresima del nipote. Pure la compagna Sabrina Ferilli ebbe a lamentarsene – artisticamente, sia detto: “Dice: bisciogna fare quescta coscia qui, per andare in quel poscto lì, perché facendo coscgì… Gli manca un po’ di chiarezza”.

Perciò, nelle ore in cui tutto franava, Bersani è sgusciato fuori dal suggestivo rimbalzo delle metafore, in quel momento di abbandono che ogni storia al suo termine impone: “Per me è troppo… Uno su quattro di noi ha tradito”. E implorava, ordinava, supplicava qualche deputato del suo partito di smetterla di twittare, di stare perennemente appeso alle voci di fuori, di darsi un contegno se proprio non riusciva a darsi coraggio. “Avete paura di due pagine di Facebook!”. E’ stata la tragedia di un uomo normale, questo aprile crudele della politica italiana: così normale che cercò di giocare con una maschera, e la maschera non riusciva più a togliere dal volto – fino alle lacrime finali, fino alla chiusura di partita. E chissà se diventerà anche la chiusura – scomponimento, scioglimento – del suo partito. Perché il più grosso ostacolo sulla via di Bersani è stato proprio il partito. Dove niente è mai al suo posto, dove una mobilità da marina borbonica non segna tanto le posizioni politiche quanto le personali vanità – altro che l’iniziale intenzione: “Il Pd deve riorganizzare l’Agorà”. Amplificate a dismisura dall’epica delle primarie, così che in disordinato assembramento satellitare il Pd ha perso, oltre alle elezioni, anche un po’ senso e, quotidianamente, il capo e la coda delle sue azioni. A forza di rinnovare qualcosa di buono resterà, ma di sicuro in questo primo mese di legislatura non sono apparse all’orizzonte parlamentare del post bersanismo né suggestive intelligenze, né temerari innovatori. C’è molta più convenienza in giro, che elaborazione politica (fare “buuuuuuuu!” alla politica facendo l’occhiolino all’antipolitica è cosa che viene facile e immediata anche ai democratici: sempre chiamando a soccorso la gente, la pubblica opinione, nel caso più deleterio la società civile). “I lettiani anche con noi giornalisti ci sanno fare, quelli di Bersani no – spiega un collega che da anni segue le sorti della sinistra – Di noi un po’ diffida. Non è come D’Alema che disprezza i giornalisti. Non è come Veltroni che li sa prendere. Lui è come Bersani”. Che qualcuno maliziosamente identifica con la frase di un personaggio di un film di Sam Peckinpah, “Il mucchio selvaggio” (a voler andare ancora di metafora, rieccoci al Pd): “Non si può dire che fosse un uomo buono, né che fosse cattivo, ma era un uomo”.

Il partito – “la Ditta”, come l’ha sempre chiamato Bersani – era all’inizio, prima che l’orizzonte fosse rubato sullo sfondo da Palazzo Chigi, la sua principale preoccupazione. Aveva abbaiato al “partito di supporter” di Veltroni, al Pd ridotto a circolo di “Bibì & Bibò”, aveva promesso di rimettere mano a tutto, ricostruire i circoli, attivare un “flusso diretto” tra base e centro. E invece, l’instabile prodotto veltroniano si è mutato in una sorta di Jugoslavia post Tito: gruppi che osservano diffidenti gli altri gruppi, patriottismi da piccole patrie, capetti scalpitanti che, un giorno uno un giorno l’altro, sembrano issarsi al vertice del dibattito. Un partito con mille verità – senza nemmeno una verità. Quasi ingestibile – e dopo le elezioni è andata sempre peggio. I centouno che nell’ombra tradiscono, la stessa portavoce di Bersani che non vota il candidato al Quirinale di Bersani, lo sfottò degli avi di rango come D’Alema, che lo appella “uomo dell’Ottocento” – manco fosse un fan di Maria Malibran piuttosto che di Vasco. E un suo conto da presentare ha anche Veltroni – e con malizia feroce lo presenta: “Mentre Berlusconi diceva: ‘Vi restituisco l’Imu’, mentre Grillo avanzava al grido di ‘tutti a casa’, ho visto che la risposta del Pd era affidata a un balletto organizzato sulla terrazza di Largo del Nazareno con un gruppo di persone che cantava ‘smacchiamo il giaguaro’… Quando io presi il 34 per cento dei voti, due giorni dopo Pier Luigi rilasciò un’intervista in cui chiedeva le mie dimissioni”. Che questo, e forse nient’altro, adesso tocca a Bersani sperimentare sulla sua pelle – come nel Pd ognuno può fare con il suo successore: imputare al nuovo sconfitto un danno maggiore di quello da lui patito.

Per due volte, per non danneggiare “la Ditta”, Bersani rinunciò a correre per la segreteria, prima con Fassino, poi con Veltroni, quindi azzardò – e pareva che finalmente toccasse a un ex comunista arrivare al governo sull’onda del voto popolare. Ma è andato tutto in maniera opposta. “Il segretario negli ultimi mesi ha perso curiosità, empatia con il mondo circostante…”. Così, a testimonianza del mutare rapido della sorte e dei giorni – cosa è stato, cosa poteva essere – si possono scorrere le oltre trecento pagine del libro “Bersani” (Editori Internazionali Riuniti), scritto da Ettore Maria Colombo, e uscito alla vigilia delle elezioni. Lì Bersani c’è tutto, ma davvero tutto – l’uomo dietro la maschera, la santificazione del “bersanese”, le storie di paese con la Madonnina che appare ai pastorelli vicino a una quercia, la pompa di benzina sulla via, la bella carriera di un funzionario di partito capace e onesto, lo studente di Storia del cristianesimo, “e già perdevo i capelli”, che da chierichetto animava lo sciopero in chiesa, il ragazzo che andava a “cercare la morosa” dall’altra parte del fiume rispetto a Bettola. Una storia di bel paese italiano – forse, alla fine, solo troppo paese.

Ha faticato, da febbraio in poi, il segretario. Non solo perché quello della sconfitta è sempre un peso che schianta, ma anche a trattenere gesti e parole e – di nuovo – lacrime. “Lui è un tenero, affabile, pronto alla battuta. Questi giorni lo hanno mutato…”. Ci sono stati altri giorni, certo. La Moretti, che gli ha fatto da portavoce e non gli ha votato Marini al Quirinale, intonava con convinzione: “Ma avete mai visto le foto di Bersani da giovane quando aveva i capelli fluenti? Assomiglia a Cary Grant, un possibile attore, e poi è alto con le spalle larghe. Non c’è paragone con Renzi…”. Una sua compagna di scuola (rintracciabile nel libro di Colombo): “Era un ragazzo bellissimo, anche se aveva soltanto quindici anni, alto, con la battuta pronta e un’incredibile somiglianza con Sean Connery…”. Persino Rosy Bindi si esponeva: “Il più bello del centrosinistra”. Tra le poche soddisfazioni, peraltro, avute da Bersani dentro il Pd, che finalmente trovava modo di concordare: “Be’, detto tra virgolette, per categorie, se ci si divide in belli, medi e brutti, quando avevo i capelli ero bello”. L’Agorà si è mutata nell’Asilo Mariuccia – vorrebbe Guglielmo Epifani come successore, dicono che straveda per Roberto Speranza, che ha imposto come capogruppo: “E’ come lui, chiuso e timoroso, gli piace molto”. Ma altro sa che non deve aspettarsi – mentre in superficie affiorano, nelle cronache dei giornali, le facce del rinnovamento da lui voluto: ecco Gianni Cuperlo, che s’avanza come possibile segretario; ecco Pippo Civati, l’aria perennemente imbronciata e le dita perennemente twittanti; ecco Matteo Orfini, dolente e ispirato come un busto del Pincio. All’inizio di tutto lo santificava Die Welt: “Bersani, l’uomo giusto per l’Italia”. Ora lo saluta il País: “El triste final de un lider triste” – proprio a lui che diceva che “la tristezza è un lusso da ricchi”, in sorte come epitaffio il titolo che quasi evoca un mesto e bellissimo romanzo di Osvaldo Soriano, “Triste, solitario y final”. Voleva studiare pianoforte e fare la rivoluzione, il giovane Bersani. “Solo che la rivoluzione non è arrivata e io non so suonare il piano”. E’ sempre possibile: le note sono più ordinate del Pd.

di Stefano Di Michele, 5/5

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