Una patrimoniale intelligente per annientare

la recessione

Questa occasione che dà il Foglio ho pensato di non perderla, un po’ per dovere di coerenza (cfr. Corriere della Sera, 8 luglio 2011 “Imposta patrimoniale per chi ha di più”), un po’ per spirito agonistico, ma soprattutto perché le obiezioni alla proposta di allora le ho trovate tutte più o meno deboli, molto viziate da pregiudizi contro l’idea in sé (un tabù ancestrale, mi pare), che ne hanno un po’ oscurato la parte “intelligente”. Che nella proposta c’è, e sta nella limitazione dell’imposta straordinaria, una tantum: 1) Alla fascia di italiani più abbiente: il 47 per cento della ricchezza sta nel 10 per cento delle famiglie; 2) Alla sola parte liquida dei patrimoni (no immobili, no partecipazioni non quotate) in modo che sia possibile pagarla, volendo, liquidando asset, e non intaccando il reddito disponibile. E poi c’era l’idea di uno sconto commisurato alle imposte sul reddito già pagate, in modo da far gravare l’imposta solo o prevalentemente su chi le tasse non le paga: così diventa una bella imposta sull’evasione passata, forse l’unica possibile, e non sembra un male. L’obiezione non ideologica più diffusa diceva: attenzione, un’imposta una tantum può avere senso solo se segna la fine di un’epoca di squilibri e tasse troppo alte (come pretendeva Einaudi, che non era pregiudizialmente contrario); altrimenti è pericolosa, perché può allentare i freni inibitori e aprire un nuovo mondo di spesa allegra. Un’obiezione seria, anche se fa pensare che il problema siano i freni inibitori e non la tassa: teniamola presente per creare le giuste condizioni di contorno. Una simile obiezione pragmatica, e intelligente, l’ho avuta da un amico, candidato a pagarla, dotato di qualche sensibilità politica, che mi ha detto: se serve solo alla riduzione una tantum del debito non funziona, non la sostengo, perché nessuno paga volentieri se non sa dove i soldi finiscono. Se serve a qualcosa di buono, allora perché no. A due anni di distanza quella riduzione “secca” del debito (che ritenevo da perseguire in via preventiva: allora lo spread era ancora lontano dai 500 punti) mi pare meno cogente. Il Fondo monetario ci dice che siamo a un passo dall’avanzo strutturale che a legislazione data ci porterà nel 2030 al rapporto debito/pil del 60 per cento, solo la Germania, nel mondo, sta come noi. Abbiamo fatto moltissimo. Più importante – drammaticamente importante – è trovare risorse per finanziare la domanda interna, subito. Senza domanda interna, fra un poco non ci sarà neanche più capacità competitiva: le imprese esportatrici reggono sui mercati esteri, ma destinano in media il 65 per cento del loro fatturato all’interno, e qui ormai non raccolgono che briciole. Si distruggerà la capacità produttiva. Se il pil non sale dell’1,5 per cento almeno nel medio periodo, addio aggiustamento. Riduciamo dunque le tasse e investiamo “enormi risorse nel lavoro”. Ma senza coperture di bilancio non c’è riduzione di imposte o aumento di spese che tengano, non solo e non tanto per colpa di frau Merkel, ma perché abbiamo un art. 81 della Costituzione acconciamente riformulato. Per creare aumento di domanda bisogna farlo a parità di saldo di bilancio, non c’è verso, e per farlo, scusate la pausa tecnica, bisogna giocare solo sui cosiddetti moltiplicatori: togliere risorse ai capitoli di spesa che fanno poco pil e travasarle dove se ne genera molto. Ma è un esercizio impervio, politicamente impegnativo, efficace in termini di punti di pil, e non di frazioni, solo se le risorse spostate sono enormi. Nessuno fin qui ci ha dato un’idea di come farlo. Quella patrimoniale può tornare utile a uscire dall’angolo, a salvare il paese, in poche parole, da una recessione senza uscita, a spese di chi può assumersene il costo (un obiettivo che almeno per qualcuno delle vittime dell’imposta può essere degno di un sacrificio). Ovvio, non si deve finanziare il deficit corrente con un’entrata una tantum: ma con intelligenza si può escogitare come farlo, e farlo bene. Per esempio rateizzando un’imposta una tantum che può valere fra gli 80 e i 100 miliardi (dipende dal perimetro scelto e dalle aliquote) rateizzandola in 3-5 esercizi. Poi, superata l’emergenza, avviata la ripresa, ci sarà una riduzione di spesa da pre-programmare subito per andare a regime al momento giusto (con questo rispondendo all’obiezione sui freni inibitori), che – se il ciclo si sarà rianimato – consentirà anche l’alleggerimento delle imposte ordinarie. Con questo schema, Einaudi non direbbe di no. Infatti, 20-30 miliardi di risorse aggiuntive annue per i prossimi 3-5 anni possono voler dire una robusta iniezione di risorse per nuovi ammortizzatori sociali e/o meno Irap, e/o meno cuneo fiscale, comunque più crescita. Abbiamo fatto un esercizio numerico su 100 milioni di imposta prelevata sui patrimoni del 10 per cento più abbiente e messi a disposizione, come esempio semplice, del 20 per cento meno abbiente, suddivisi in quattro anni. L’imposta produce effetti negativi sui consumi dei ricchi dello 0,07 per cento l’anno e positivi sui consumi dei meno abbienti del 2,2 per cento, e una bella crescita del pil: in quattro anni recuperiamo tutta la recessione. Ovvio, non è così semplice, non è affatto semplice, e ci sono una serie di difficoltà anche tecniche da risolvere. Ma vale la pena pensarci senza pregiudizi: altrimenti, che si trovino soluzioni alternative, migliori e più intelligenti, se ce ne sono.

di Pietro Modiano. Presidente di Nomisma, 14/5

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