Letta, il leader riluttante

L’approdo a un riformismo che era nuovo trent’anni fa

non basta. Enrico Letta, per statura politica, ruolo istituzionale e dati anagrafici, è oggettivamente destinato a costituire l’alternativa a Matteo Renzi nella futura guida dell’area di centrosinistra. Questo, che è un dato di fatto – anche se oggi non appare di attualità visto che la prospettiva immediata è quella di una segreteria Renzi accanto al governo Letta – rende particolarmente interessante analizzare le intenzioni programmatiche del premier, riassunte nell’intervista che conclude un suo libro biografico, redatto da Federico Fantozzi e Roberto Brunelli, e pubblicata ieri per ampi stralci dall’Unità.

Sul piano dell’immagine, Enrico Letta cerca di togliersi la grisaglia ministeriale (quella che ha portato questo Foglio a dipingerlo con “cinquanta sfumature di grigio”) e a puntare su un rapporto “caloroso” con l’elettorato. In sostanza, si rende conto che l’eccesso di appiattimento tecnocratico accompagnato da generiche proclamazioni demagogiche ha consegnato un’immagine autoreferenziale del Partito democratico, ma non sembra abbia ancora trovato la chiave giusta per superare questo pesante limite. Sul piano dell’analisi Letta ritorna, trent’anni dopo, alla combinazione tra “meriti e bisogni” in cui Claudio Martelli aveva sintetizzato la prospettiva di una nuova visione sociale propria del riformismo craxiano. Quella formula aveva suscitato polemiche concentriche: dal Pci, che vi vedeva una attenuazione dell’impegno sociale, inteso come lotta per ottenere vantaggi collettivi e non per garantire la mobilità sociale attraverso il merito, e dalla Dc, che temeva fosse un’operazione culturale volta a sottrarle la sua centralità interclassista.

Naturalmente si può ironizzare su una sinistra che arriva in ritardo di decenni, ma si può anche apprezzare l’approdo finalmente raggiunto, che nella situazione straordinaria – sia per la situazione economica sia per l’equilibrio politico – può rappresentare un filo di ragionamento unitario, non solo all’interno del Partito democratico ma come collante dell’ampia coalizione.

Qui però il ragionamento di Letta sembra bloccarsi: non una parola sul senso politico del governo che presiede e della maggioranza che lo sostiene, come se gli stessi obiettivi che si pone, per esempio il rilancio della mobilità sociale, non fossero anche una conseguenza dell’intesa su cui è costruito l’esecutivo. Ed è qui che si nota una certa carenza di personalità, come si suol dire di leadership. Chi esercita una funzione politica di primo piano, e quella di presidente del Consiglio dei ministri è la più rilevante di tutte, indipendentemente da quel che dice viene giudicato per il successo o l’insuccesso dell’operazione politica che porta il suo nome. Può anche passare successivamente (con successo o almeno con una certa credibilità) a nuove e diverse operazioni, ma solo se ha interpretato al meglio e con evidente convinzione quella precedente. I grandi dirigenti democristiani toscani dalla forte individualità, da Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ad Amintore Fanfani, che sono il retroterra dell’esperienza di Letta (e di Renzi) hanno attraversato stagioni politiche diverse, ma hanno in ogni occasione rivendicato un’interpretazione sicura (qualche volta anche esagerando) del loro ruolo. Per questo, a distanza di decenni, resta una nitida, seppure talora controversa, immagine della loro personalità politica.

Quel che manca ancora a Letta è questo tratto che rende riconoscibile uno stile politico, che lo distingue dalla semplice e noiosa correttezza istituzionale. Non è detto però che questo aspetto caratteristico, per ora irriconoscibile e occultato, sia inesistente. Nella sua analisi, basata sullo “spaesamento” causato dalla crisi nelle famiglie e nella società, si può leggere in controluce anche la sensazione di un corrispondente spaesamento della politica, che ha perso tanta della sua autorevolezza, e questo può essere un buon punto di partenza per la costruzione di un racconto in cui si esprima finalmente una visione caratterizzante.

A Letta non mancheranno le occasioni, interne e forse soprattutto internazionali, per dar prova di carattere, e sarà da come affronterà quelle prove che si potrà capire se ha gli attributi necessari per competere per la guida di un’area politica decisiva, oppure se è destinato a un ruolo di servizio, nel senso meno esaltante del termine. Comunque utile, ma strutturalmente subalterno.

di Sergio Soave per FQ, 22/6

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