Il Pd e il romanzo del piccione

I tempi lunghi della candidatura del sindaco, le mosse

degli azionisti, la zuffa con D’Alema. Storia, origine e segreti della battaglia (stile Rcs) tra Renzi e il patto di sindacato del Pd

I lettori ci perdoneranno se in mezzo alle mille gustose notizie che continua a offrirci l’estate ci ostiniamo a parlare del roccioso congresso del Partito democratico, con tutte le sue surreali dinamiche interne, i suoi formidabili riposizionamenti quotidiani, le sue romantiche lotte fratricide e le sue appassionanti dispute sulle modifiche del comma A, capitolo Bis, paragrafo C dello statuto del Pd. In altre condizioni, le mosse dei Gianni Pittella, delle Debora Serracchiani e compagnia bella sarebbero state facilmente archiviabili sotto la nota categoria giornalistica degli “scazzi nel Pd”. Ma dato che oggi, per la prima volta nella sua storia, il Pd si trova al governo, e dato che l’ultima volta che un politico di centrosinistra ha governato in concomitanza con un congresso del Pd le cose sono andate come sono andate (Prodi e Veltroni, 2007-2008), è evidente che in questo momento anche il battito d’ali di una Serracchiani può provocare un uragano a Palazzo Chigi. Ed è sotto questa lente di ingrandimento che vale dunque la pena di perdere un po’ di tempo per capire che cosa sta succedendo nell’universo del Pd, e per comprendere che cosa stanno combinando i principali azionisti di quel patto di sindacato che governa il Pd e che si ritrova oggi di fronte a una situazione di questo tipo: con un azionista forte che scalpita per entrare e diventare il nuovo azionista di riferimento del patto e con lo stesso azionista che al momento ritarda la sua proposta d’acquisto anche perché scoraggiato dal fatto che i contraenti del vecchio patto di sindacato, forti della loro comune debolezza, si stanno riavvicinando per tenere il più lontano possibile il nuovo possibile azionista di maggioranza. Ci riusciranno?

Negli ultimi giorni, complice un improvviso allontanamento tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema, il sismografo del Partito democratico ha registrato delle nuove scosse che hanno avuto l’effetto di spostare nuovamente alcune placche del Pd. Ma a voler semplificare il tutto, e a voler aiutare il lettore a orientarsi in mezzo al grande romanzone politico di questa stagione, si può dire che oggi, sotto vari punti di vista, la vera sfida che vive dietro le quinte del congresso del Pd potrebbe essere sintetizzata così: da una parte c’è il vecchio patto di sindacato del Partito democratico, quello formato dagli azionisti storici che governano da anni il Pd e che naturalmente non hanno intenzione di perdere contatto con la stanza dei bottoni del partito; dall’altra parte ci sono invece, potremmo chiamarli così, i Della Valle del Pd, quei candidati cioè che hanno in tasca una buona liquidità in termini di elettori e che hanno deciso di sfidare i pattisti per evitare che il Pd sia governato da tanti piccoli azionisti che, sfruttando il congelamento del partito, in tutte le decisioni che contano fanno pesare anche il loro zero virgola qualcosa. Fuori dal patto oggi ci sono Matteo Renzi e Pippo Civati. Dentro il patto oggi ci sono Enrico Letta, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. Tra queste linee di frattura, poi, c’è Massimo D’Alema, e alla fine di questo piccolo romanzo democratico capirete perché quello che è successo nell’ultimo weekend tra il sindaco di Firenze e l’ex presidente del Consiglio avrà un certo peso per comprendere le mosse future dei principali azionisti di maggioranza del Pd.

Il piccione Renzi. La perfetta fotografia della fase che sta attraversando il Rottamatore ce la offre un esponente del Pd vicino al sindaco di Firenze con un breve sms consegnato ieri pomeriggio al cronista. “Matteo è quasi deciso. L’unica cosa che lo frena è la questione delle regole. E poi deve capire se si compatta un fronte unico contro di lui, cosa che sinceramente mi pare oggi irrealistica. Aveva messo in conto la contrarietà di D’Alema, e ora resta solo da capire quanto sia dura e convinta questa contrapposizione”. Il discorso dunque è evidente: Renzi si prenderà ancora un po’ di tempo prima di sciogliere la riserva, continuerà per qualche settimana a fare scouting all’interno del Pd, cercherà di allargare il suo consenso anche ad altre componenti del partito e proverà ad arrivare entro la fine del mese (anche se i tempi si stanno allungando) con in mano un pacchetto di voti che gli consenta di ottenere due obiettivi: non correre rischi eccessivi al congresso ed evitare che la sua candidatura sia una specie di “Renzi contro il resto del mondo”. Già, ma in concreto che cosa significa? E su chi conta di fare affidamento Renzi per allargare il suo bacino di consenso? Per capire questo punto bisogna fare un passo indietro e riavvolgere il nastro all’inizio di maggio, quando la candidatura alla segreteria era un’ipotesi così remota che anche i più fedeli tra i consiglieri di Renzi, nel teorizzare la necessità di una netta separazione tra il ruolo di segretario del Pd e ruolo di candidato premier (altri tempi…), non avevano difficoltà a riconoscere che “oggettivamente fare adesso le primarie per scegliere il prossimo candidato premier significherebbe far suonare una campana a morte per il governo” (sette maggio, Paolo Gentiloni sul Foglio). A quei tempi, e fino all’inizio di giugno, il sindaco di Firenze aveva cominciato a muovere i primi passi per capire che tipo di consenso potenziale avrebbe avuto una sua candidatura alla premiership, nel caso in cui il governo Letta si fosse ritrovato improvvisamente con le gambe all’aria. Colloquio dopo colloquio, Renzi ha raccolto intorno alla sua futura candidatura (alla premiership eh) un consenso inaspettato (compreso quello di D’Alema, compreso quello di Vendola). Ed è stato a quel punto che il sindaco di Firenze (siamo alla fine di maggio) ha cominciato a fare un ragionamento di un altro tipo: quanto di questo consenso che ho raccolto intorno alla mia (futura) candidatura alla premiership potrebbe trasformarsi in un consenso intorno alla mia candidatura a segretario? E così Renzi ha iniziato a fare due calcoli e ha messo insieme una serie di pezzi di Pd in cerca d’autore che (salvo sorprese) potrebbero appoggiare la sua scalata alla guida del Pd: da Michele Emiliano (sindaco di Bari) a Stefano Bonaccini (segretario regionale dell’Emilia Romagna) passando per i prodiani (di rito non bindiano), i veltroniani (in blocco), alcuni non allineati del Pd (sul modello Michele Emiliano), i “giovani sciolti che non seguono Civati” (e Renzi è convinto che il suo vecchio amico Pippo al congresso un buon 15-20 per cento lo prenderà, e di questo è un po’ preoccupato) e infine un buon pezzo di franceschiniani (anche se le camaleontiche mosse del ministro per i Rapporti con Parlamento costituiscono un capitolo a sé). In tutto questo, poi, Renzi – che ultimamente tra Montecitorio e Palazzo Madama ha visto aggiungersi ai suoi cinquantuno parlamentari il sostegno indiretto di una buona parte dei deputati e senatori montiani – considera importante per i suoi progetti futuri il sostegno (un tempo inimmaginabile) di Repubblica. E non è certo un mistero, editoriali alla mano, che negli ultimi tempi Rep. abbia oggettivamente cambiato atteggiamento nei confronti del Rottamatore (due domeniche fa persino Eugenio Scalfari, che fino allo scorso novembre vedeva nel sindaco una sorta di “Ghino di tacco del Pd”, ha regalato il suo endorsement a “Matteo”). All’interno di questo quadro, poi, va aggiunto anche il ruolo di Walter Veltroni, che tra i famosi rottamati del Pd (Renzi durante le primarie diceva che Veltroni avrebbe fatto meglio a occuparsi di romanzi piuttosto che di politica) è quello che oggi ha un rapporto più diretto con il sindaco di Firenze. Renzi considera prezioso l’aiuto che l’ex segretario può e potrà dargli per allargare il suo bacino elettorale sul fronte ex diessino, e Veltroni, anche se del sindaco si fida fino a un certo punto, ha dato a Renzi disponibilità piena. Un aiuto prezioso, certo, ma non determinante per colmare il vuoto che si è venuto a creare attorno a Renzi dopo lo scazzo avuto qualche giorno fa con il conte Max. Già, quanto peserà? E cosa è successo tra Renzi e D’Alema?

Fra-Ber-Let e il patto di sindacato. All’interno della complicata geografia del Partito democratico, complice anche la scelta di puntare su Guglielmo Epifani come traghettatore pro tempore, i principali azionisti di maggioranza del Pd oggi sono senz’altro i tre del Fra-Ber-Let: Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Enrico Letta. Tutti e tre i componenti del patto, pur con sfumature diverse, condividono l’idea che una segreteria a trazione renziana rischia di trasformarsi in una bomba piazzata sotto l’impalcatura del governo. Il ragionamento è semplice: la tenuta dell’esecutivo è inversamente proporzionale alla carica di innovazione che vi sarà alla guida dei democratici, e più il leader che prenderà in mano il Pd esprimerà un profilo innovativo e più saranno le possibilità che quel leader diventi un competitor dell’attuale presidente del Consiglio e che quel leader arrivi alla conseguenza estrema di accelerare il processo di decomposizione del governo (d’altronde l’insistenza di Renzi nell’affermare che il segretario del Pd deve essere anche il candidato premier non può essere certo un segnale rassicurante per chi oggi si trova al governo: significherebbe che il segretario, un minuto dopo essere eletto, sarebbe di fatto in campagna elettorale). Per scongiurare di ritrovarsi nelle stesse condizioni in cui si ritrovò Romano Prodi alla fine del 2007 subito dopo la vittoria di Walter Veltroni alle primarie, Enrico Letta oggi non può che ammettere che una candidatura di Epifani e un passo indietro di Renzi costituirebbero insieme una sorta di elisir di lunga vita di questo governo. E pur con tutte le cautele del caso, anche alcuni lettiani di ferro in questi giorni hanno riconosciuto che un profilo morbido alla Epifani sarebbe l’ideale per dare al governo la necessaria serenità. “Epifani – ha ammesso qualche giorno fa al Foglio Marco Meloni, lettiano di ferro, uomo di collegamento tra Palazzo Chigi e Pd – sta facendo bene, attorno a lui c’è un consenso naturale, e se il prossimo segretario avesse un passo simile al suo sarebbe ottimo”. Ai passi felpati di Letta attorno al futuro del congresso Pd si aggiungono gli interventi meno ovattati del fronte che fa capo a Pier Luigi Bersani (e che domani si ritroverà a Roma a discutere il documento Fassina). I sostenitori dell’ex segretario del Pd, come è noto, non nutrono grande simpatia per il sindaco di Firenze (eufemismo) e pagherebbero oro pur di scongiurare una candidatura del Rottamatore alla guida del partito (che oltre a indebolire il governo indebolirebbe anche il peso che Bersani ha ancora all’interno del Pd). L’ex leader del centrosinistra, sotto sotto, sogna una ricandidatura di Epifani, e lo stesso ex segretario della Cgil ha confessato più volte ai suoi collaboratori che in caso di passo indietro di Renzi il suo “non ho intenzione di ricandidarmi” potrebbe non essere così definitivo. E così, per disincentivare la candidatura di Renzi, la corrente bersaniana ha deciso di muoversi su tre fronti. Fronte numero uno: insistere per una modifica dello statuto del Pd, e prevedere una separazione netta tra il ruolo di candidato premier e il ruolo di segretario del partito. Fronte numero due: insistere per la trasformazione del congresso del Pd in un congresso a tesi (sullo stile di quelli della Cgil) che prevederebbe una prima fase di congressi provinciali e regionali in cui (cosa che farebbe male a Renzi) peserebbero più le forze schierate sul territorio che la forza del singolo candidato a livello nazionale. Fronte numero tre: buttare nella mischia un’altra candidatura (modello Stefano Fassina) in grado di frenare la fuoriuscita di consenso dal fronte degli ex diessini, ricompattare il fronte sindacale del Pd (quello tendenza Cgil) e mettere insieme il vecchio corpaccione rosso del Pd (che al momento si divide tra bersaniani, alla ricerca di un loro candidato, e dalemiani, a sostegno di Gianni Cuperlo). In questo scenario, poi, il terzo azionista di riferimento del patto di sindacato del Pd, Dario Franceschini, agisce invece, come spesso gli capita, su due fronti distinti: da un lato disincentiva anche lui la candidatura di Renzi corteggiando Epifani e incoraggiando Debora Serracchiani a scendere in campo (il governatore del Friuli fino a qualche mese fa era punta di diamante della corrente di Franceschini); dall’altro lato manda (anche in privato) sms affettuosi al sindaco lasciando intendere che se però Renzi sarà in campo il ministro (anche per mettere in cassaforte il futuro della sua corrente) non potrà che spostare le sue truppe cammellate e camaleontiche verso Firenze. L’obiettivo del patto di sindacato, dunque, è quello di convincere Renzi a rimandare la sua discesa in campo a quando cadrà il governo Letta. E se ai tre del patto dovesse aggiungersi anche D’Alema (che al momento però non vuole avere nulla a che fare con Bersani e i bersaniani) le cose per Renzi potrebbero farsi più complicate, diciamo.

Lo scorpione tradito. Per molti versi oggi voler capire le mosse di Massimo D’Alema è come voler capire qualcosa sulle scelte di comunicazione del partito di Monti o sulle strategie del calciomercato dell’Inter di Moratti. Un giorno sta con Renzi e un giorno sta contro Renzi. Un giorno sta contro Epifani e un giorno sta con Epifani. Un giorno sta contro Letta e un giorno sta con Letta. Un giorno (anzi, un secondo) sta con Veltroni e un secondo dopo sta di nuovo contro Veltroni. Un giorno (anzi, tre anni) sta con Bersani e un secondo dopo sta contro Bersani. E così via. Eppure, pur nella obliquità delle traiettorie, le scelte di D’Alema oggi non sono comprensibili senza inquadrare il suo orizzonte futuro. Ai suoi collaboratori l’ex presidente del Consiglio non fa che ripetere che non è interessato al partito e che il suo unico obiettivo è quello di avere un ruolo di peso il prossimo anno, quando in Europa saranno assegnati due incarichi che D’Alema osserva con sguardo interessato, e leccandosi i baffi. Incarico numero uno: successore di Javier Solana come Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea. Incarico numero due: concorrente di Martin Schulz come candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Tutte le mosse di D’Alema, dunque, compreso anche il suo cauto ma significativo riavvicinamento a Epifani cominciato alcuni giorni fa durante una cena tra l’ex presidente del Consiglio e il segretario del Pd avvenuta alla fine di un summit a Bruxelles tra i leader dei progressisti europei, non possono essere comprese se non partendo dalle sue ambizioni europee. Ma tutte le mosse di D’Alema, a dire il vero, non possono essere comprese senza guardare alla ragione per cui l’ex premier oggi è furioso con Matteo Renzi. E non è certo un caso se negli ultimi due giorni sono arrivate una dopo l’altra prima la stoccata di D’Alema a Renzi sulle regole, “che non sono a uso di Renzi”, e poi, ieri, la replica indiretta del sindaco, che rivolgendosi anche a D’Alema ha accusato i “capicorrente romani” di aver cominciato a dar vita a un insostenibile tiro al piccione (dove il piccione, in questo caso, sarebbe ovviamente Renzi). Insomma, che è successo tra Renzi e D’Alema? La storia è questa. Durante gli ultimi mesi, dopo essersi allegramente mandati a quel paese per tutta la campagna elettorale, Renzi e D’Alema si erano riavvicinati sulla base di un accordo preciso: Renzi aveva promesso a D’Alema che la sua candidatura alla segreteria sarebbe stata solo una mossa per sparigliare e sondare il proprio consenso effettivo all’interno del Pd, e aveva assicurato che mai e poi mai sarebbe sceso in campo per guidare il partito, ma solo per guidare il centrosinistra alle elezioni. D’Alema si era fidato di Renzi e, stando al gioco, si è mosso sul filo dell’ambiguità, lanciando a più riprese il sindaco come naturale leader del futuro (ricordate la sua intervista da Lilli Gruber a “Otto e Mezzo”, quella in cui sosteneva che con Renzi il Pd “potrebbe aver risolto il problema della leadership”?) consapevole che la candidatura di Renzi avrebbe riguardato la sua futura corsa alla premiership, e non alla leadership del Pd. Durante l’ultimo weekend, però, D’Alema ha ricevuto da un ambasciatore del sindaco la comunicazione che Renzi aveva deciso di scendere in campo (“non è in discussione il ‘se’, è in discussione semmai il ‘come’ e il ‘quando’”). E una volta sentitosi tradito, D’Alema ha cominciato ad alzare il telefono e a chiamare i suoi uomini sul territorio per denunciare l’accaduto. Uno dirà: ma D’Alema, che non è neanche in Parlamento, conta ancora così tanto nel Pd? Per rispondere a questa domanda bisogna capire che, al di là della rete di dalemiani presenti in Parlamento e sul territorio (tra consiglieri regionali, comunali, assessori, sindaci, segretari provinciali, e via dicendo), le parole dell’ex presidente del Copasir per una buona parte del Pd hanno ancora lo stesso impatto che potrebbero avere in Iran le parole di un ayatollah. E dunque non ci vuole molto a capire che un conto è se l’ayatollah dice ai suoi discepoli non fate ostruzionismo a Renzi; un conto invece è se dovesse dire: ragazzi tutti in campo contro il moccioso traditore con i pantaloni corti. Renzi, così si dice, aveva messo nel conto l’incazzatura di D’Alema. Che sia vero o no, di sicuro oggi c’è che il sindaco di Firenze ha posticipato di qualche settimana l’annuncio della sua candidatura. E il fatto che Guglielmo Epifani, a quanto risulta al Foglio, ha intenzione di far partire la macchina del congresso subito dopo agosto, per evitare che le feste dell’Unità si trasformino in una guerra fratricida tra anime del Pd, potrebbe far slittare chissà a quando la presentazione delle candidature. Per Renzi, a guardar bene, ogni giorno in più di rinvio della sua decisione potrebbe essere davvero un giorno in più di tiro al piccione. Ma se il sindaco ha promesso di non candidarsi qualora le primarie si dovessero trasformare nuovamente in un “Renzi contro il resto del mondo” è evidente che la sua candidatura passa anche dalle mosse di D’Alema. E se l’ayatollah dovesse dichiarare guerra al Rottamatore, nel Partito democratico rischiano di aumentare le speranze di tutti gli azionisti che si augurano che Renzi di fronte al patto di sindacato del Pd faccia più o meno la stessa fine di Diego Della Valle di fronte al patto di sindacato di Rcs. Chissà.

di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, FQ 3/

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata