GARDINI, L'ENNESIMA “VERITA'”. IL SUO AVVOCATO

TEMEVA IL METODO GIUSTIZIALISTA DI MANI PULITE

PER  FARTI PARLARE: CARCERE PREVENTIVO E DURO

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, 28/7

Passati gli anniversari, c'è una persona che ha ancora qualcosa da raccontare sull'estate del '93 e sul suicidio di Raul Gardini: il suo avvocato, Giovanni Maria Flick, che tre anni dopo sarebbe diventato ministro della Giustizia di Prodi.

«Credo sia giusto fare chiarezza su quelle giornate di vent'anni fa. Non è vero che Gardini fosse rientrato a Milano la sera tardi, il giovedì, alla vigilia dell'appuntamento in procura. Non so cosa si siano detti Di Pietro e i carabinieri che sorvegliavano la casa di piazza Belgioioso. Fatto sta che Gardini era a Milano da tre giorni, e quel giovedì l'avevamo passato insieme, a preparare l'interrogatorio. Io lo prendevo in giro, gli chiedevo: "Ha fatto i compiti?".

Lui mi ripeteva quel che mi aveva confidato il sabato precedente, a colazione a Ravenna: "Non so proprio quali compiti posso fare". Gardini era terribilmente angosciato all'idea di non saper rispondere, spiegare, chiarire. Di non avere più gli elementi, da quando con il "divorzio" era stato estromesso dalla famiglia Ferruzzi. Si sentiva un uomo fallito. Sono convinto che si sia ucciso proprio per questo: per il peso della sua sconfitta umana, familiare, imprenditoriale, e per l'angoscia di non sapere o di non potere documentare come le cose erano andate davvero».

Professor Flick, è sicuro di questo? Gardini aveva trattato con lo Stato, e con i partiti, la questione Enimont.

«Ma da un anno e mezzo era fuori. Non posso dire con certezza che fosse sincero. Ma la mia sensazione era che lo fosse. Ne ebbi conferma il lunedì dopo, quando partecipai ai suoi funerali, di fronte alla straordinaria manifestazione di stima e di affetto dei ravennati, dei suoi concittadini, di chi lo conosceva bene».

Quando ha sentito Gardini l'ultima volta?

«Lo chiamai il mattino stesso, per avvertirlo che stavo arrivando, ma non mi rispose. Si sparò pochi minuti dopo. La notte era stata caldissima, non riuscivo a dormire, e ricordo le rassegne stampa dei tg che continuavano a ripetere la stessa notizia: "Giuseppe Garofano, l'ex presidente della Montedison, si è costituito e accusa Gardini".

Per lui fu un altro colpo, dopo la notizia del suicidio di Cagliari, che l'aveva molto provato. Al mattino presto lo chiamai, per dirgli che l'avrei raggiunto da lì a poco. Anche se l'interrogatorio con Antonio Di Pietro e Francesco Greco non era imminente, a mia memoria era fissato per il primo pomeriggio, a mercati chiusi. Posso dire per certo di essere arrivato in piazza Belgioioso per primo, insieme con l'ambulanza.

E Di Pietro non c'era. A mia memoria arrivò abbastanza tardi. Non sono entrato nella stanza di Gardini. Ho detto di lasciar tutto com'era, e mi sono inquietato quando ho visto uscire i barellieri con il corpo. Mi risposero che sentivano ancora un battito. Con l'avvocato Marco De Luca andai al pronto soccorso, che è lì a due passi, dove ci dissero che era spirato».

Cos'avrebbe detto Gardini a Di Pietro?

«Non lo so. Gli avevo chiesto di mettermi tutto per iscritto, ma non lo fece».

Non indicò neppure il destinatario del miliardo di lire portato a Botteghe Oscure?

«No».

Di Pietro l'avrebbe mandato in carcere? Cos'avevate contrattato?

«Non ho mai contrattato nulla con Di Pietro. Se c'è qualcosa che mi dava fastidio, erano le trattative con il pm: "Te lo porto o non te lo porto, ti dice qualcosa o non te la dice". Comunque, la vera domanda è in quale galera l'avrebbe mandato. La carcerazione preventiva era dosata a seconda delle circostanze e del personaggio: San Vittore, vale a dire carcere duro; Opera, che al confronto era un hotel a cinque stelle; e la caserma delle Guardie di Finanza, cui seguivano i domiciliari.

Quando si costituì Cragnotti rientrando dall'estero, fu mandato a Opera e da lì a casa. E quando contestai a Borrelli l'uso della galera per far parlare gli imputati, lui mi rispose: "Noi li mettiamo fuori quando hanno parlato, dimostrando di aver interrotto il circuito affaristico illecito". Anche Davigo teorizzava la custodia preventiva come unico strumento: la confessione rendeva il reo inaffidabile agli occhi dei complici e quindi lo faceva uscire dal sistema».

Meno di tre anni dopo il suicidio di Gardini, lei divenne Guardasigilli. Come si mosse per evitare che tutto questo si ripetesse?

«Ci rendemmo conto che era sbagliato accentrare ogni cosa a Milano, dove si era creata una sorta di "procura nazionale anticorruzione".

E che non bastava la repressione dei magistrati; occorreva prevenire. Passammo l'intera estate del 1998 a discutere nel silenzio come uscire da Tangentopoli, visto che i processi stavano rapidamente correndo verso la prescrizione. Si trattava di indurre le persone coinvolte ad ammettere le loro responsabilità, con attenuanti di pena ma con l'obbligo di risarcimento e l'interdizione dai pubblici uffici.

Purtroppo ci fu una fuga di notizie, Repubblica titolò: "Il perdono dell'Ulivo", io fui processato politicamente, emersero le ipocrisie della sinistra e non solo di quella "giustizialista", in molti chiesero la mia testa. Risposi che presto ce ne saremmo andati a casa tutti, il che in effetti avvenne a ottobre.

Neppure il governo Prodi riuscì a voltare pagina. Avevo preparato una riforma della giustizia: ma nel febbraio del '97 fui fermato da D'Alema, che mi scrisse una lettera per dirmi di non intralciare i lavori della Bicamerale. Così la riforma non si è fatta.

E oggi siamo un Paese malato, che non riesce ad assegnare un appalto o a gestire la sanità o anche solo a bandire concorsi pubblici per assumere personale senza l'intervento decisivo della criminalità organizzata o della corruzione politica. Rispetto a vent'anni fa i sintomi sono diversi; ma la malattia forse è perfino peggiorata».

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