PD IN MILLE PEZZI CON LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

"Noi vorremmo, vorremmo, vorremmo tante cose...

ma non possiamo", dice Fabrizio Cicchitto con un'aria d'ironico fatalismo. E l'ex capogruppo del Pdl certo parla di casa sua, di Arcore e di Palazzo Grazioli, della quasi perduta agibilità politica del Cavaliere, del suo mondo incerto e confuso tra falchi crisaioli e colombe governiste, gli uomini e le donne del Pdl, quei dirigenti e parlamentari che volteggiano attorno a un Silvio Berlusconi che fosse per lui si batterebbe i pugni sul petto come King Kong, per rivoltare l'Italia, la magistratura, i poteri parrucconi, il governo che non lo tutela, ma che pure, anche lui, non può, non può nulla di ciò che vorrebbe, se non altro perché non gli conviene, perché è libero ma pure prigioniero, e perché infine qualche strano e indecifrabile spiraglio adesso s'intravvede.

E così bisogna proprio immaginarsi le facce singolarmente soddisfatte di Renato Brunetta e Renato Schifani, i capigruppo del Pdl che di ritorno dal Quirinale, dopo un'ora di colloquio con Giorgio Napolitano, ieri si sono chiusi nello studio privato del Cavaliere a via del Plebiscito, al riparo dalle orecchie della corte, fuori i secondi, presenti soltanto Gianni Letta e Angelino Alfano. Mistero, e un pissi pissi di Palazzo che alimenta leggende, e ottimismo, sulle parole che davvero il presidente della Repubblica avrebbe consegnato agli emissari del Cavaliere ("non si può dire nulla, shhh").

Ma al di là della fantasia, tutte le velleità del Palazzo si sciolgono sotto il sole d'agosto, come sembra dire Cicchitto con quel "vorremmo, vorremmo...", ed è una contagiosa malattia dello spirito, un morbo che si diffonde e appesta la politica tutta, gonfia i corridoi del Palazzo. Ciascuno degli attori sul proscenio d'Italia oggi vorrebbe, ma non può.

E dunque Giorgio Napolitano vorrebbe favorire la riforma della giustizia, lo ha fatto capire e lo ha pure confermato a Brunetta e Schifani, lui che ha subìto sulla propria pelle lo sfregio giudiziario di Palermo, la storia delle intercettazioni di Nicola Mancino, il presidente che da sempre coltiva un'idea di riequilibrio tra i poteri squilibrati, lui che pure, dunque, "vorrebbe vorrebbe", ma, come il Cavaliere, in realtà non può.

Nessuno più di Napolitano sa bene che con la riforma della giustizia il Partito democratico finirebbe in mille pezzi a sporcare la fastosa tappezzeria del Quirinale, e sarebbe tutto un agitarsi dei riflessi più manettari e chiodati del centrosinistra italiano, del giornalone Repubblica e del suo cugino povero e trinariciuto, il Fatto, con il complemento dei ripetitori politici, il Movimento cinque stelle, Vendola, Civati, quel che resta di Di Pietro... "Sarebbe troppo per chiunque", sussurrano dalle stanze del Quirinale. E dunque la sindrome del vorrei ma non posso descrive la misura della palude politica nella quale resta impantanato anche Enrico Letta. Pure lui vorrebbe governare, ma non può.

Il presidente del Consiglio ci prova, incontra per ore Ignazio Visco e Fabrizio Saccomanni, il governatore della Banca d'Italia e il ministro dell'Economia, l'uomo misterioso dei misteriosi conti (in rosso) d'Italia. Coltiva delle ambizioni, Letta, vorrebbe avviare le riforme, occuparsi d'Imu e di Iva ("entro fine mese sarà tutto chiaro"), di rilancio dell'economia, eppure, malgrado il premier non dedichi nemmeno un minuto del suo prezioso tempo al tramestio che lo circonda e lo avvolge, "serve stabilità", Letta si guarda dall'esterno e si vede affondare nella guazza fangosa dei veti e delle spinte contrapposte di partiti che si strattonano annullandosi l'un l'altro.

Mario Monti in pochi mesi aveva avviato riforme strutturali come quella delle pensioni, lui invece è costretto ad adottare la politica del rinvio, del "mo' vediamo", del "faremo", pur d'evitare un eccesso d'attrito nella stranissima maggioranza, nelle opposizioni con l'anello al naso. Ed è forse sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia, ma per Letta questo marasma inconcludente suona come una condanna al lento martirio dello spelacchiamento. E sembra che l'Italia politica tutta sia mossa da un'immobile energia.

"Il presidente Berlusconi non chiederà gli arresti domiciliari, né l'affidamento ai servizi sociali. Andrà in carcere e gli italiani devono saperlo", dice Daniela Santanchè, la pasionaria che trasmette gli umori e i desideri del grande capo, il castellano di Arcore che dunque vorrebbe andare in carcere, alimentare da lì, dalla prigionia, la sua battaglia antigiudiziaria, lui che pure in carcere invece non ci andrà affatto, perché non spetta a lui decidere, perché il suo destino lo stabilirà il giudice di sorveglianza.

Vorrebbe, dunque, ma non può. Come gli stessi uomini del Pdl domenica avrebbero voluto manifestare in grande, nella piazza di San Lorenzo in Lucina, ma non hanno potuto, "manifestiamo, sì, ma senza esagerare". Ed è così che la grande piazza agitata del Pdl è diventata la piccola piazza compunta di via del Plebiscito, tra le lacrime del Cavaliere e quelle di Francesca Pascale. Sarebbero dovuti partire dei pulmann da tutta Italia, "volevamo, ma non potevamo".

A Palermo i dirigenti del Pdl, sabato, si chiedevano cosa fare, "ormai l'abbiamo detto ai giornalisti che partiamo con gli autobus. Che succede se vengono a fare fotografie?". E nella Sicilia, dove tutto s'aggiusta, la risposta del gran dignitario berlusconiano non poteva che essere questa: "Noi l'autobus lo prendiamo, ci facciamo un giro fino a Villabate, in periferia, e poi torniamo in città".

Salvatore Merlo per "il Foglio" 6/8

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