La tentazione di ripetere l’attacco ai giudici

che portò alle monetine del Raphael

Se davvero Silvio Berlusconi pronuncerà il suo gran discorso contro i giudici al Senato, prima del voto che potrebbe espellerlo dal Parlamento, allora l’impressionante analogia tra la fine della Prima Repubblica e la crisi della Seconda sarà completa. E non sarà una buona notizia per l’Italia, perché la Storia non dovrebbe mai ripetersi. Una democrazia che vive per due volte in vent’anni il trauma di un collasso politico per via giudiziaria è infatti certamente malata.

Fu proprio un discorso alla Camera di Bettino Craxi a mettere una pietra tombale sull’assetto politico del Dopoguerra. E non mi riferisco a quello più celebre del 3 luglio del 1992, molto evocato in questi giorni, in cui il leader del Psi, ancora solo sfiorato dalle inchieste su Tangentopoli, usò il dibattito sulla fiducia al primo governo Amato per una formidabile chiamata di correo a tutti partiti sul finanziamento illegale: «Se gran parte di questa materia deve essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo». Nessuno si alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana suonasse solo per Craxi. E le cose andarono diversamente.

Dieci mesi dopo, il 29 aprile del 1993, il leader socialista fu infatti costretto a ripetere quelle frasi in un contesto ben diverso: non più per salvare il sistema ma per salvare se stesso, per chiedere all’aula di Montecitorio di respingere le richieste di autorizzazione a procedere della Procura di Milano contro di lui. Ed è a quell’intervento, l’ultimo mai pronunciato da Craxi in un’aula parlamentare, che il discorso cui starebbe lavorando Berlusconi pericolosamente si avvicina.

Fu infatti un attacco ad alzo zero contro i pm di Milano. Una requisitoria contro gli «arresti illeciti, facili, collettivi, spettacolari e perfino capricciosi... le detenzioni illegali che fanno impallidire la civiltà dell’habeas corpus... le violazioni sistematiche del segreto istruttorio... la giustizia che funziona ad orologeria politica... il teorema... le inchieste su di me, sulle mie proprietà, sui miei figli, sui miei amici... ». È difficile che , per quanto possa essere originale, Berlusconi riuscirà a fare di meglio: frasi e giudizi di quel discorso sono da allora diventati il canovaccio di ogni polemica sull’«uso politico della giustizia», per usare il titolo del libro di un altro socialista, Fabrizio Cicchitto, cui si dice che Berlusconi si stia ispirando in queste ore. Ma è anche impressionante che l’uomo che conquistò l’Italia sull’onda di Tangentopoli e della crisi del debito pubblico del ’92, chiamandola alla rivolta contro i vecchi partiti incapaci e corrotti, rischi ora di uscire di scena sconfitto sugli stessi fronti, i processi e i mercati, come se in questo ventennio di dominio elettorale non fosse riuscito a cambiare neanche una virgola dell’equazione politica nostrana.

Quell’ultimo discorso di Craxi ebbe un effetto straordinario. Positivo per lui nell’Aula, dove la sera, a sorpresa, e forse con l’aiuto segreto dei leghisti che puntavano a far saltare tutto, la maggioranza dei deputati respinse la richiesta dei pm sotto gli occhi di Giorgio Napolitano, allora seduto sullo scranno più alto di Montecitorio. Ma ebbe un effetto catastrofico, per Craxi e per tutta la Prima Repubblica, fuori dall’Aula. La sera dopo, davanti all’Hotel Raphael a Roma, ci fu la orribile gogna delle monetine, che cambiò per sempre la cultura politica del nostro Paese; il governo Ciampi e l’intera legislatura ne uscirono irrimediabilmente azzoppati; Craxi fu costretto a dimettersi da segretario, perse nel ’94 l’immunità parlamentare e prima che potesse essere arrestato fuggì ad Hammamet, da esule secondo i suoi sostenitori, da latitante secondo i suoi persecutori.

Un discorso analogo, non fosse altro che per scaramanzia, sembrerebbe dunque sconsigliabile oggi a Silvio Berlusconi, anche se bisogna ammettere che le differenze, tra tante analogie, non mancano. Craxi infatti, al momento in cui prese la parola in Aula, era già stato condannato dal tribunale dell’opinione pubblica, che aveva individuato in lui l’agnello sacrificale perfetto per liberarsi di una Repubblica da tempo sprofondata nella corruzione e nell’inefficienza, rivelate all’improvviso come all’alzarsi di un sipario dalla caduta del Muro di Berlino. Berlusconi ha invece ancora oggi una consistente parte dell’Italia dalla sua parte, e su quella evidentemente conta nell’ipotesi di un’ultima, forse disperata battaglia elettorale, nella speranza che l’Italia di oggi sia disposta a mettere per molti mesi da parte lo sforzo di ripresa economica per dedicarsi al duello finale tra giustizia e politica.

Soprattutto, la strategia di Berlusconi non può contemplare l’espatrio come extrema ratio. Non glielo consente la vastità degli interessi che sarebbe costretto a lasciarsi indietro, abbandonati a una sorte incerta: le aziende, i figli, le case, un partito. Senza contare che, a differenza di Craxi quando varcò il confine, Berlusconi non ha più il passaporto.

 20 agosto 2013 | 9:11 Antonio Polito per il Corriere della Sera

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