Il “Toga Party” esiste e indaga di preferenza

I  nemici politici. Un’analisi scientifica su trent’anni di richieste

di autorizzazione a procedere. Discrezionalità e autonomia sono alibi

“Perché i giudici perseguono i deputati di certi partiti più che quelli di altri partiti?”. Sembra la tipica domanda che da vent’anni sentiamo nei talk-show, al bar. Così come sembra di aver già sentito milioni di volte anche la risposta: “L’affiliazione politica dei giudici italiani influenza in modo significativo la decisione di perseguire certi partiti più che non altri e l’attività giudiziale è anche influenzata dai conflitti dentro il Parlamento”. Per la politica italiana è il tema polemico cruciale da almeno tre decenni. Ma lo si può anche affrontare in modo asettico, con i mezzi della statistica e dell’analisi comparata e con il supporto di una solida bibliografia scientifica – come hanno fatto due giovani politologi dell’Università di Milano, Andrea Ceron e Marco Mainenti – e arrivare per via deduttiva sostanzialmente alla stessa conclusione cui milioni di italiani sono arrivati per via intuitiva: “I risultati mostrano che l’affiliazione politica dei giudici incide in modo significativo sulla decisione di perseguire alcuni partiti più che non altri. Inoltre, i giudici sono influenzati anche dai conflitti interni tra i partiti in Parlamento”.

Andrea Ceron e Marco Mainenti hanno svolto il loro lavoro su una base di rilievo statistico, analizzando il comportamento dei magistrati, e incrociandolo con la loro specifica inclinazione politica, attraverso le richieste di autorizzazione a procedere contro deputati della Camera dal 1983 al 2013. Un totale di 1.256 richieste (limitatamente a reati quali la corruzione o quelli contro la Pubblica amministrazione) nei confronti di 1.399 deputati. Il lavoro di Ceron e Mainenti, nella forma di un articolo, sarà presentato domani a Firenze durante l’annuale congresso della Società italiana di Scienze politiche. Il contributo dei due ricercatori è doppiamente interessante, perché entrando in medias res, e con indubbio tempismo, affronta un “fenomeno autoevidente” come quello della politicizzazione del sistema giudiziario “nonostante la sua autonomia”, e lo fa sine ira ac studio, con i dati e la loro analisi. In secondo luogo, viene a colmare un vuoto di analisi di altri lavori, poiché, scrivono gli autori, spesso gli studi in materia – probabilmente per un pregiudizio positivo rispetto ai sistemi in cui le cariche dei magistrati sono elettive – rivolgono poca attenzione a quei sistemi in cui le carriere dei giudici sono più autonome rispetto alla politica. Ceron e Mainenti dimostrano invece che “l’affiliazione politica del giudice gioca un ruolo cruciale anche laddove i giudici sono selezionati attraverso concorso”. E tanto più avviene nei tribunali italiani, in cui – l’osservazione è comune ai molti giuristi e analisti che hanno studiato la materia, diligentemente segnalati in bibliografia – “i giudici godono di un livello elevato di indipendenza formale e il sistema giudiziario è fortemente politicizzato”.

Il giudice “muove per primo” nella gara contro il parlamentare, scrivono i due autori. E subito cade la finzione dell’obbligatorietà, che cede il passo alla discrezionalità: “Sono i giudici a scegliere se aprire un’azione contro un deputato o no”, la loro “larga discrezionalità” è cresciuta notevolmente “dagli anni 80”. Come venga usata, viene approfondito  secondo tre ipotesi interpretative. La prima, puntualmente verificata: “Più l’orientamento politico del magistrato diverge dalle posizioni ideologiche di un partito, più il giudice è incline a procedere contro quel partito”. Parallelamente, la richiesta di autorizzazione a procedere ha maggiori possibilità di essere accolta in base all’orientamento “ostile” del Parlamento rispetto al soggetto (partito) coinvolto. Corollario: i giudici sono meno inclini a procedere contro un partito, se l’insieme degli altri partiti tende maggiormente a proteggere le prerogative del Parlamento.

Quella italiana, in cui i ruoli sono assegnati in base a concorsi, viene in astratto considerata come una magistratura al riparo dalla politicizzazione. Si sa che non è così. Meglio analizzarla dunque raggruppando virtualmente in “Red Courts” e “Blue Courts” l’andamento elettorale interno all’Anm delle differenti aree politiche dei magistrati. Quattro sono quelle storiche: Magistratura indipendente, di tendenza conservatrice; Magistratura democratica e Movimento per la giustizia a sinistra e la centrista Unità per la Costituzione. Analizzando in rapporto al crescere o decrescere e distribuirsi dell’appartenenza politica dei magistrati attraverso la loro rappresentanza dentro l’Anm, la statistica conferma quel che l’osservazione empirica ha già intuito: “Quando la percentuale di magistrati affiliati ai raggruppamenti di sinistra cresce, cresce anche l’attività contro i partiti di destra”. Ovviamente, l’effetto della politicizzazione non riguarda solo le Red Courts, ma è rilevabile anche nelle Blue Courts, ovvero laddove aumenta la componente moderata. La disfunzione, insomma, è strutturale. Ma è notevole una differenza sostanziale dei comportamenti. “Per ogni incremento del 10 per cento di rappresentanza della componente di sinistra – scrivono gli autori – crescono del 3,5 per cento le richieste di autorizzazione a procedere contro i partiti di destra e dell’1,3 quelle verso i partiti centristi”, mentre “i partiti della sinistra moderata ed estrema non sono danneggiati dalla crescita dei magistrati di sinistra”. Invece, quando a crescere sono le Blue Courts si “investiga meno contro i partiti del centrodestra o moderati”, e questo può facilmente apparire un fatto fisiologico: a una crescita del 10 per cento di Magistratura indipendente, i procedimenti verso partiti di destra scendono di 5 punti rispetto alle indagini contro la sinistra. Ma i procedimenti che coinvolgono la sinistra non crescono in modo notevole, come accade invece a situazione invertita.

Questioni strutturali, o di semplice sensibilità giuridica? I due autori non entrano nello specifico, si limitano a far parlare la “autoevidenza dei fatti”. Ma concludono: “Mentre la politicizzazione della magistratura non è necessariamente un problema se i giudici sono selezionati attraverso elezioni, questa diventa un problema se non lo sono”, tanto più se l’autonomia si mescola alla coloritura politica. Una critica esplicita di due capisaldi ideologici del sistema di giustizia italiano: l’autonomia e la discrezionalità. Naturale che il saggio si chiuda con l’auspicio di una necessaria riforma.

Maurizio Crippa , F,Q. 11/9

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