La grande sfiga

Una maledizione lasciata dall’agonizzante Prima

Repubblica si abbatte da anni sui presidenti di Camera e Senato. Vanitosi, ambiziosi, riveriti. Poi tutti ai giardinetti

E chissà se davvero, come raccontano, Laura Boldrini ogni tanto osserva quei ritratti, mischiati a vanvera da un disguido del destino, nella galleria dei presidenti, e attraversando il corridoio più sfortunato di Montecitorio, talvolta, posa uno sguardo pietoso sulla fotografia sorridente di Fausto Bertinotti, su quella compresa di Irene Pivetti, su quella cinerea di Gianfranco Fini. E allora la presidentessa della Camera, che i commessi chiamano Isidora, in onore dell’imperatrice di Bisanzio, circondata com’è sempre da uno scenografico codazzo d’assistenti, portaborse e addetti stampa, si fa sfuggire un sospiro. Ed è un solletico, un subbuglio di speranza, o forse un fastidio che corre sotto la pelle, una specie d’insidia dei nervi, un brivido infinitesimale del pensiero che non riesce a farsi concetto, ma solo pare coagularsi in frantumi inerti di dubbio: “Farò la loro stessa fine?”. Sospiro.

Nella Seconda Repubblica i presidenti della Camera, come quelli del Senato, hanno trovato una triste fine, precipitati nel nulla o nell’irrilevanza. Dov’è finito l’elegante Carlo Scognamiglio, che da guida di Palazzo Madama condivise la vittoria napoleonica del 1994 con Silvio Berlusconi? Pare riceva ancora in via della Dogana Vecchia, nel suo ufficio vitalizio del Senato: si suona alla porta e un cameriere filippino, in guanti bianchi, introduce l’ospite alla scrivania dell’illustre pensionato. E dov’è oggi Marcello Pera, che per cinque anni governò con filosofia il Senato, e quasi divenne un Papa laico, tanto rinnegò il suo passato relativista? Chissà. Uno dopo l’altro sono caduti gli uomini nuovi, germogliati all’ombra di Mani pulite, chi fulminato dal suo narcisismo, chi travolto dall’ebbrezza istituzionale, chi stordito dalla vanità d’una politica che sempre più si faceva catodica, con “Porta a Porta”, la terza Camera, a umanizzare ciò che forse non doveva essere umanizzato. Tutti vittime della Camera tombale, tramontati, tutti, dunque, allo stesso modo, come colpiti dalla maledizione della Prima Repubblica, che riecheggia quella di Atahualpa, l’ultimo re degli Incas: “Avete voluto impossessarvi del nostro cibo – gridò Atahualpa al conquistatore Pizarro che lo stava strangolando – ebbene io vi dico che il nostro cibo vi farà impazzire”. Il cibo degli Incas era la foglia di coca, che da quel momento cominciò appunto a diffondersi in Europa e nelle Americhe. Più sommessa, ma implacabile, è stata la maledizione della Prima Repubblica sulla Seconda. E così Leone e Gronchi, Pertini e Scalfaro, che dalla presidenza della Camera furono proiettati nell’Olimpo del Quirinale, stanno lì, nel Palazzo, costretti nei loro ritratti maestosi, accanto alle più recenti rovine, ai volti martirizzati di Bertinotti e di Violante, di Fini, di Pivetti e di Casini. E i presidenti d’un tempo, i vecchi democristiani, socialisti e comunisti, gli uomini d’apparato e d’antica pianta, Pietro Ingrao e Nilde Iotti, sembrano osservare, dalle loro alte cornici dorate, la tragedia dei loro successori. Ma col sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di chi molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro con un velo di commiserazione. Dai loro occhi, ultimi dell’antico ceppo costituzionale, s’irraggia dunque la sfortunata maledizione, “avete voluto impossessarvi del nostro cibo…”.

Ed è vero, resistono Renato Schifani e Luciano Violante, che furono presidenti del Senato e della Camera. Ma il capogruppo del Pdl, con qualche guaio giudiziario a Palermo, e il saggio quirinalista, sono imprigionati nel limbo delle riserve della Repubblica, che è sigla araldica della speranza istituzionale, certo, ma è pur sempre una riserva, e dunque un’angusta prigionia dove palpare lo spessore di buio che avanza, una lavagna su cui è stampato l’irresistibile nulla che li inghiotte. E certo, la politica li ha fatti fuori tutti, ma proprio tutti, tranne uno: Pier Ferdinando Casini, l’irrottamabile, più gatto di D’Alema, più volpe di Veltroni, eterno come fu Andreotti. Eppure quello di Casini, che della Camera fu presidente, è solo un eterno galleggiare inerte, dai fasti con Silvio Berlusconi, di cui è stato il Delfino (anche qui eterno), alla sussistenza con Mario Monti, fino a oggi, a queste ore, lanciato com’è, Tarzan fuori moda, da una liana politica all’altra, sempre pronto ad abbandonare l’ultimo dei suoi sfortunati Forlani, che fu il suo maestro, per aggrapparsi a un nuovo padrinato da spolpare. E dunque dal “vecchio Arnaldo” a Berlusconi, da Berlusconi a Monti, da Monti agli astri nascenti Enrico Letta e Angelino Alfano, i due soci postdemocristiani, altro giro altro salto, per farci un nido anche qui, con i promettenti quarantenni adesso a capo del governo di larghe intese. Ma ogni volta per Casini l’abitazione diventa sempre più angusta, remota, precaria, e persino i giovani leoni cui ora tenta di tenersi stretto ogni tanto si danno di gomito: “Guarda Pier Ferdinando, lui sì che ha un grande futuro dietro le spalle”.

E dunque è vero, ha di che sospirare Laura Boldrini – e ne avrebbe anche Pietro Grasso, che è superstizioso, e forse si abbandona agli scongiuri – tutta compresa com’è, la presidentessa Isidora, nella chimera autoreferenziale di Montecitorio, in quell’alluciolio di speranze e di inganni chiamato Camera dei deputati. Davvero non c’è presidente che non s’illuda, non c’è seconda, e non c’è terza carica dello stato che non sia convinta, intimamente sicura, certissima di ricoprire un incarico cucito sulla sua personalità, proprio come Boldrini, che della sua presidenza sta facendo una missione, un incarico messianico, e infatti tanto ricorda l’ultima donna che sedette prima di lei sul seggio più alto della Camera, Irene Pivetti. A trentun anni, Pivetti, leghista alfabetizzata, s’arrampicò in cima allo scranno più alto di Montecitorio, contratta e neghittosa, con un moto di delicata vertigine nello sguardo. Indro Montanelli se ne invaghì subito, “tra gli uomini nuovi, è il più nuovo e il più uomo”, disse di lei, che esibiva la croce di Vandea, come Boldrini oggi porta addosso la croce dei peccati del mondo, lei che, col suo cipiglio, famelico ma castigato da un freno occulto, con la sua aria dolente, già avanza con torbida santità di martirio verso lo spelacchiamento. La donna più uomo e più nuova della Seconda Repubblica sarebbe passata da un integrale komeinismo vandeano all’Udeur di Mastella, dall’offerta secessionista all’offrire peperoncini secchi di Ceppaloni e vaghi, improbabili odori di poltrone; per poi naufragare lentamente verso l’oblio. La televisione spazzatura, il faustismo catodico di una trasmissione tragicamente chiamata “Bisturi”, il collo alto scambiato per la mise sensuale di catwoman, latex, borchie, cuoio sadomaso, e infine il buio. La presidenza della Camera ha cancellato Irene Pivetti dalla politica italiana. Chi è stata Irene Pivetti? Un’integralista? Una liberale? Una democristiana? Una donna dello spettacolo? Oppure, dopo essere stata presidente della Camera, è stata niente? Come Carlo Scognamiglio, che fu il Pietro Grasso della Pivetti, il presidente del Senato, lui che, rispettabile e vestito di buona sartoria, espressione dell’establishment nel mucchio selvaggio e vincente del Cavaliere, evidentemente ignaro della maledizione che grava sui presidenti del Parlamento, pronunciò il suo primo discorso in Aula con una mano in tasca e gli occhiali calati sul naso, quando gli sarebbe servito invece un cornetto portafortuna. Ed è ovviamente finito ai giardinetti, Scognamiglio, non prima d’aver fondato un partito rovinosamente chiamato Udr. Anche Nicola Mancino e Franco Marini, funzionari, vecchia Dc, uomini ligi alle regole dell’apparato, implacabili nelle loro scelte e dotati di un’ambizione sempre temperata dalla funzione, sono caduti vittime della stessa sfortunata congiura del destino, due presidenti del Senato, l’uno triturato nelle fumose pieghe della trattativa tra lo stato e la mafia, parcheggiato in un angolo oscuro del Palazzo; l’altro sfregiato dal suo stesso partito, il Pd che lo ha candidato al Quirinale e condannato a un’efferata sconfitta, “un fatto volgare e ingiusto”, disse il ruvido Marini a Lucia Annunziata che lo intervistava.

“Quando si è numeri due spesso si pensa a come diventare numeri uno, e lo si fa con tale profonda intensità da perdere la testa”, disse una volta Spadolini. E’ forse questa la spiegazione razionale che occulta la maledizione del Parlamento, la tragedia dei numeri due, dei vice-qualcosa, i secondi divorati dall’ambizione e dagli stucchi dorati, dalla mobilia inutilmente fastosa dei Palazzi romani, dalle liturgie e dalla gran pompa che disperde anche le intelligenze più vive nella grande città burocratica e pigra. Tutto ciò che il Quirinale non vuole o non ha il tempo di fare, onori e rassegne militari, incontri e visite di stato, strette di mano e ambasciatori, fotografie e rappresentanze estere, tappeti rossi e fanfare, precipita sui presidenti delle Camere, e insomma tutto concorre a insinuare una speranza nel cuore, a vivificare l’ambizione che si cela in ogni anima politica. Come Marini anche Pera e Casini pensarono di poter conquistare l’augusto Palazzo del Quirinale, e nel 1998, Francesco Cossiga, arrivò alla raffinatezza crudele di stuzzicare e assecondare le legittime ambizioni del suo acerrimo nemico Luciano Violante, dell’uomo che una volta chiamava “il mio piccolo Vishinsky”: gli profetizzò pubblicamente la presidenza della Repubblica italiana. E sempre, dunque, tra picchetti d’onore e sciabole sguainate, carabinieri in alta uniforme e salamalecchi istituzionali, a questi numeri due e numeri tre dello stato par d’aver quasi afferrato la mela, di essere a un passo dagli allori del numero uno, quelli veri. Ma è solo un miraggio, la dolorosa illusione d’un momento, abbastanza da confondere anche gli uomini più saldi e assuefatti alle ubriacanti lusinghe del potere. Gianfranco Fini ha imboccato così, come i suoi predecessori, il viale del tramonto, un’altra vittima della maledizione, sacrificio umano al Dio supremo dello stato. Pensionato e sconfitto ancora prima del suo alterno alleato e nemico Silvio Berlusconi, Fini ha appena terminato di scrivere un libro di memorie, e a lungo, nel rimuginare, negli ultimi mesi, non sapeva bene come iniziarlo, quale ricordo scegliere nello specchio rotto della sua vita, se la scheggia più tenera (gli anni del trionfo) o la più aguzza, che è stata per lui proprio la presidenza della Camera. La volle, fortissimamente la volle, sfidando il Cavaliere, rifiutando posti al governo, facendo ammattire i suoi colonnelli, quei Gasparri e La Russa che gli sono sopravvissuti e che ancora oggi non si spiegano l’insistenza tetragona, “la caparbietà evidentemente fatale”, dell’uomo che per vent’anni è stato il capo della destra in Italia e che oggi non è più nulla. Come la pipa di Magritte. Disegnò una pipa e ci scrisse sotto: questa non è una pipa.

L’ambizione, si sa, bolle tumultuosamente come una caldaia, e in Fini è stato così sino alla catastrofe terribile che avrebbe sciolto i grumi della sua vita. “Che fai mi cacci?”, chiese, e il silenzio che ebbe in risposta da Berlusconi se lo portò addosso come un presentimento di sciagura, come una gobba. Voleva liberarsi definitivamente dal ricatto dello sdoganamento, voleva spuntare l’arma di chi pigramente ricorre alla formuletta antifascista per marcare le distanze, e per questo Montecitorio gli sembrava salvifica. La presidenza della Camera è un ruolo istituzionale, la terza carica dello stato significa cancellare il ricatto per sempre, consegnarsi a un ruolo capace di raccogliere facili applausi senza troppo faticare, un trampolino per la successione morbida alla leadership del Cavaliere. Au contraire, tutto sbagliato, la sua è stata un’esistenza ubriacante, ma volatile al pari d’un incrocio d’ombre sul muro. E tutt’una serie di inciampi, di sfortune e di scandaletti l’hanno stritolato, annichilito, distrutto dal momento in cui ha messo piede al piano nobile di Montecitorio: la baruffa con Berlusconi, l’avvitamento irrazionale del Pdl, l’epurazione finale, il tentativo disastrosamente fallito di abbattere il governo, e infine quel mostriciattolo di partito tragicamente chiamato Fli, lo straziante ritorno ai più bassi bassifondi della politica di un ex vicepremier e ministro degli Esteri che pure aveva avuto la sua fierissima grandeur. E poi la casa di Montecarlo, le immersioni abusive nel mare di Giannutri, i nove uomini di scorta alloggiati a Grosseto in hotel a spese del contribuente…

Anche l’ultimo comunista sedutosi sullo scranno più alto della Camera, Fausto Bertinotti, è passato dal dieci per cento dei voti all’estinzione politica, ovvero da un quadro di Sironi (“l’unico rimpianto che ho per lo studio di Montecitorio”) a un quadro allarmante. La sua è stata una presidenza riempita di innocue enormità mondane, tra un soggiorno nel Chiapas e una visita ai monaci del monte Athos, recordman di presenze da Bruno Vespa nel 2007, accettò con entusiasmo la parte di Calamandrei in uno spettacolo su Danilo Dolci al Teatro Valle. Intrappolato nel gioco del narcisismo, Bertinotti fu trasformato dalla sua ambizione in una maschera pirandelliana, quello strano fenomeno di sdoppiamento per il quale in Israele, di fronte agli ebrei che gli chiedevano conto dell’ambigua posizione dei comunisti italiani nei confronti del terrorismo di Hamas, Bertinotti rispondeva: e che c’entro? Mica sono il capo dei comunisti, qui vengo da presidente del Parlamento italiano. Bertinotti aveva il piacere, e il dispiacere, d’essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione presente e assente, essere un altro. Uno, nessuno e centomila Fausto, un pozzo di smarrimento identitario che ha condotto Rifondazione comunista alla disfatta elettorale.

Ed è certamente vero, come dicono tutti, che la presidenza della Camera è un eremitaggio noioso e beato, un rifugio letargico che inietta malavoglia nel sangue, ma dev’esserci di più, sul serio la maledizione degli Atahualpa della Prima Repubblica. Perché presiedere il Parlamento, in Italia, non porta bene. L’ecatombe presidenziale sta lì a dimostrarlo, con i suoi terribili sacrifici umani, gli svaghi malinconici, crudeli e dissipati di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ed è il destino dei presidenti, la dannazione dei numeri due e tre dello stato, divenuti da un momento all’altro un’escrescenza fastidiosa; non più patrizi degni di adulazione, ma fossili della geologia istituzionale musealizzati in vita sotto le bende di gerghi e cerimonie tanto esornative quanto illusorie e soffocanti. Un monito per Laura Boldrini e Pietro Grasso. Un decreto del fato primorepubblicano.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Salvatore Merlo   –   @SalvatoreMerlo, 13/10

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