Ecco quanto sono costate le “primavere

arabe”: ottocento miliardi bruciati

Torna in mente il famoso detto secondo cui “la libertà non è gratis”. Alla fine dell’anno, le “primavere arabe” saranno costate a quei paesi e a quelle popolazioni ottocento miliardi di dollari. Bruciati. Lo studio viene dalla banca Hsbc ed è a firma di Simon Williams e Liz Martins. L’istituto finanziario calcola che il prodotto interno lordo di Egitto, Tunisia, Libia, Siria, Giordania, Libano e Bahrein sarà del 35 per cento inferiore rispetto a quanto sarebbe stato se non ci fossero state le rivolte. La crescita in medio oriente e nord Africa, inoltre, che nel 2011 si attestava al 4,9 per cento, scenderà quest’anno a meno del quattro per cento. Hsbc ha preso in considerazione i sette paesi più colpiti dalle insurrezioni e dal caos.

Il Financial Times, che analizza i dati nell’articolo “Il costo di una rivoluzione”, commenta che la disoccupazione resta altissima in quei paesi: “Un’ironia, perché alti livelli di disoccupazione avevano causato l’inizio delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto”. Quella dell’Egitto, per esempio, è quasi raddoppiata rispetto al periodo precedente sotto Hosni Mubarak. Si fa anche notare che paesi come quelli del Golfo, non toccati dalle proteste, stanno crescendo a un ritmo sostenuto.

In Libia c’è grande timore per gli investimenti e l’ad di Eni, Paolo Scaroni, ieri ha detto di essere “preoccupato”, l’Egitto è vicino al collasso. Su Tripoli, la Hsbc spiega che si aspetta una crescita della sua economia petrolifera il prossimo anno di appena lo 0,7 per cento. Il turismo nella regione ha perso quindici miliardi di dollari. Il numero di turisti nelle cinque destinazioni principali nella regione, dall’Egitto al Libano, è un quarto di quello precedente le rivoluzioni.

Il Cairo intanto ha perso quasi il quaranta per cento del turismo, in un paese dove gli hotel, i musei, le piramidi e i templi sono un bene più prezioso persino del petrolio e del canale di Suez (la trasformazione del piccolo villaggio del Sinai, Sharm el Sheikh, nella galassia turistica in grado di attrarre quattro milioni di turisti stranieri all’anno è una delle grandi eredità dell’èra Mubarak). Dall’inizio della “prima Rivoluzione”, la Banca centrale d’Egitto è stata impegnata nel futile tentativo di frenare l’inflazione sostenendo il tasso di cambio della valuta. Ma questo ha prosciugato le riserve, passate da trentasei a quattordici miliardi. Un milione di posti di lavoro sono andati persi dopo lo scoppio della rivoluzione nel gennaio 2011. Le riserve di valuta estera si sono ridotte a soli due mesi di fondi per finanziare le importazioni. Da luglio, quando c’è stata la “seconda rivoluzione” dei militari contro il presidente islamista Mohammed Morsi, il turismo ha perso quasi un altro miliardo. A sei mesi dall’inizio dei moti a piazza Tahrir, il giornale arabo Asharq al Awsat titolò così: “Le rivoluzioni non piovono oro”. I salari sono diminuiti del venti per cento, gli investimenti stranieri sono calati del sessanta per cento, la produzione industriale del dodici per cento, il numero di disoccupati è duplicato.

Tante le compagnie che hanno lasciato l’Egitto o hanno drasticamente ridotto la loro presenza: Apache Corp, Chevron, General Motors , Electrolux, Basf, Bg Group e Bp. Molte di queste compagnie hanno già scelto altri lidi: Lusaka, Accra, Lagos e Nairobi. Nel caos c’è un solo settore che in Egitto sembra aver beneficiato delle proteste: il mercato nero delle antichità rubate dai musei. Il rapporto di Hsbc non lascia molte speranze, almeno nell’immediato: “Il ritorno ai livelli di attività economica del 2011 richiederà una piena normalizzazione politica”. Queste economie resteranno appese al prestito straniero, che nel caso dell’Egitto andrà tutto a vantaggio della giunta militare del generale Al Sisi. 

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