Cifre e ipotesi per guarire l’ipertrofia della Sanità

Il taglio degli sprechi sanitari vale più della manovra.

Stime a confronto. La famiglia Rotelli ha rilevato l’ospedale San Raffaele quand’era gravato da un miliardo di debiti circa due anni fa. Investimenti poco oculati, procurati dalla velleità di grandeur della gestione del fondatore, don Luigi Verzé, avevano creato una struttura ipertrofica e appesantita. Una volta assunto il comando dell’azienda ospedaliera convenzionata più grande di Lombardia, i Rotelli hanno deciso di tagliare i costi dei servizi alberghieri e delle forniture per alcuni strumenti medicali – del 25 per cento in entrambi i casi – e così hanno contenuto gli eccessi di spesa: nessun fornitore è fallito, ma sono stati risparmiati oltre cinquanta milioni di euro e il bilancio di gestione è tornato in equilibrio, come riportato dal Foglio del 15 ottobre.

Replicare nel settore della Sanità pubblica l’esperimento di una gestione imprenditoriale è, nella pratica, difficile. Per molti osservatori, la chiave del problema è che la politica nomina i dirigenti ospedalieri: che, quindi, rispondono a logiche diverse da quelle economiche. In teoria, però, l’esperimento del San Raffaele può essere ripetuto con i numeri (con le criticità del caso, in un sistema così complesso). Secondo i calcoli del Foglio – basati sugli ultimi dati relativi all’anno 2011 del rapporto “Oasi 2012” del centro Cergas Bocconi – con il “metodo Rotelli” si potrebbero risparmiare 8,9 miliardi di euro. Su una spesa sanitaria di 112,5 miliardi di euro a livello nazionale, il 31,5 per cento è infatti composto da beni e servizi, sanitari e non; il taglio à la Rotelli (25 per cento su tutte le forniture) implicherebbe quindi risparmi per circa nove miliardi. Ovviamente sono tagli lineari (alla stregua delle manovre finanziarie degli anni scorsi) che non tengono conto della specificità delle diverse situazioni: ci sono infatti ospedali virtuosi che soffrirebbero per una ulteriore compressione delle risorse, mentre altri inefficienti avrebbero certo meno soldi da sprecare. Un calcolo più preciso dei tagli possibili lo fece il commissario alla spending review, Enrico Bondi, sotto il governo Monti. Bondi aveva stabilito una media dei costi per le forniture e i servizi uguale per tutto il sistema, scoprendo sprechi per 5,6 miliardi. Ad esempio, le Asl pagano più del dovuto per uno strumento medico che può essere comprato a meno, con una differenza del 20-22 per cento rispetto al “prezzo giusto” indicato dalla Autorità di vigilanza per i contratti pubblici (ora impegnata a elaborare i risultati di una consultazione pubblica, che nei prossimi mesi individuerà i prezzi di riferimento per capire dove s’annida il superfluo). Miliardo più o miliardo meno, è certo che l’inefficienza ha un costo esponenziale per lo stato che finanzia la spesa sanitaria regionale.

Lo spreco delle regioni “devianti”

“La svolta del San Raffaele ci dice che un ente, messo di fronte al baratro e alla ineludibilità dei vincoli di bilancio, si riorganizza. Le regioni e le loro Asl dovrebbero essere trattate allo stesso modo ma, come il federalismo, così anche la responsabilizzazione degli amministratori pubblici è finita in soffitta”, dice Fabio Pammolli, direttore dell’istituto di ricerca Cerm. Il Cerm aveva stimato un risparmio minimo di “risorse da liberare” che varia dai 4,5 miliardi, quando si considerano le differenze di spesa pro capite ponderata per fascia di età, a un massimo di 12,5 miliardi, quando si considera anche la qualità dei servizi erogati, se, per ipotesi, tutte le regioni convergessero verso il benchmark di efficienza dell’Umbria. Significa un risparmio annuo pari allo 0,8 per cento del pil, poco più del valore della Legge di stabilità appena approvata. Ci sono infatti regioni che spendono troppo dando poco in termini di servizi, al punto che un terzo della spesa non trova giustificazione. In particolare, nelle quattro regioni “devianti”, il divario rispetto al benchmark è significativo: Campania (3,5 miliardi), Sicilia (2,1), Puglia (1,8), Lazio (1,5). “Il rapporto che lo stato deve stabilire con le entità autonome non dev’essere quello di un centralismo democratico che fa salvataggi mirati dopo avere assecondato dei default di fatto. Se manteniamo i vincoli di bilancio ‘soffici’ di oggi, per cui alla fine è il pubblico a pagare il disavanzo, saremo condannati a non fare mai quanto sta facendo il San Raffaele”, dice Pammolli. Perché più la Sanità regionale spreca, più avrà bisogno di liquidità per raggiungere buoni livelli di performance: una trappola di spesa e deficit.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Alberto Brambilla   –   @Al_Brambilla, 17/10/2013

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