La leggenda dello yeti distrutta dal test del Dna

“È un orso arcaico”. Messner si arrabbia: lo dico  da anni,

nessuno mi ha creduto. La prova nei due peli analizzati  dal genetista inglese Sykes

ENRICO MARTINET, La Stampa, 9.11.2013

Due peli e una leggenda finita in frantumi. Quella dello yeti, l’«abominevole uomo delle nevi», che non è un gigantesco ominide ma un grande orso. I due peli raccolti da una carcassa nel Ladakh e da una foresta di bambù nel Bhutan, ai due estremi della catena himalayana, sono finiti sul tavolo da scienziato del genetista inglese Bryan Sykes e il mito si è dissolto. O forse no. Quei peli trovati a una distanza di 1200 chilometri narrano di un grande plantigrado che ha resistito nei millenni. È una creatura che non dovrebbe più esistere, frutto di un lontano matrimonio tra un orso polare e un orso bruno.

 Nulla a che vedere con la specie umana, neppure con le scimmie, come qualcuno favoleggiava, ma un animale del passato, tra i 40 mila e i 120 mila anni fa. In quei due peli il professor Sykes dell’Università di Oxford ha trovato l’impronta genetica trovata nella mandibola di un orso polare conservato dal ghiaccio delle isole norvegesi Svalbard di almeno 40 millenni fa. Quell’ibrido d’orso ha continuato a vivere nelle montagne più alte del mondo. La leggenda può continuare, soprattutto sopravvive nelle «teste degli uomini», come ha detto un irato Reinhold Messner in un’intervista a Radio Capital. Il «re degli ottomila» lo dice da decenni che lo yeti è un orso. Nel 1986 l’ha visto e ne ha parlato, nel 1998 l’ha raccontato in un libro. «Sai che scoperta - dice -. E ci volevano milioni e gli scienziati per dire ciò che sapevo da sempre. Biologia e genetica non c’entrano, ci voleva uno studio approfondito sulla leggenda».

 Per tibetani e nepalesi che vivono nelle terre più alte del pianeta lo yeti (traduzione possibile è «quello là») rappresenta una paura ancestrale. Un animale aggressivo che popola i loro sogni e di cui conservano resti. Fra questi ce n’è uno in una scatola di vetri lucchettata nel monastero di Khumjung, nella valle nepalese dell’Everest: la parte sommitale di un cranio con scalpo marrone. La carcassa trovata nel Ladakh circa 40 anni fa da un cacciatore impaurì l’uomo. Conservò alcuni resti e disse che «quell’animale era strano», lui che di orsi ne aveva cacciati. Particolare che fa dire al professor Sykes: «Forse è una specie più aggressiva, ha un comportamento diverso, cammina di più, rispetto agli altri, su due zampe». Si spiega così la confusione con un nome primitivo, un Neanderthal con pelliccia. «Rimarrà così nell’immaginario», dice Messner che ha cestinato due offerte americane per collaborare ad altrettanti film sulla scoperta. E l’alpinista più famoso al mondo è stato oggetto di scherno per anni, quando divulgò di aver visto lo «yeti», spiegando che era un orso. Si ironizzò sugli effetti dell’altitudine, quindi della rarefazione dell’ossigeno, agli ottomila metri. E invece aveva ragione. 

 Lo stesso Simone Moro, anch’egli himalaysta, pur non avendo mai visto lo yeti né le sue tracce, racconta di «grandi alpinisti che l’hanno visto e si sono ben guardati di dirlo per paura di perdere di credibilità».

Dell’animale gigantesco e favoloso si parla dal 1898, anno in cui il colonnello inglese Laurence Waddell trovò una grande orma alle pendici dell’Everest. Sempre lì videro parecchie tracce anche i primi uomini sul Terzo Polo, sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay. Ma la fama dell’«abominevole uomo delle nevi», termine coniato sempre in Inghilterra nel 1921, si propagò con la fotografia di un’impronta sui ghiacciai dell’Everest dall’alpinista inglese Eric Shipton nel 1951. Da allora lo yeti accompagna anche i nostri sogni. E lì rimarrà.  

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