La nuova marcia del Pd. La discontinuità

di Renzi, la trasformazione del governo, gli effetti

della decadenza. Catalogo aggiornato delle anime del Pd alle prese con l’arrivo del ciclone di Firenze

Meno dieci, ci siamo. Domenica otto dicembre Matteo Renzi, un anno dopo aver perso le primarie contro Pier Luigi Bersani, dovrebbe essere eletto segretario del Partito democratico e pensando a quella data non ci vuole molto per capire che da quel momento in poi nei rapporti tra l’universo del Pd e quello del governo comincerà una fase nuova e movimentata. Da un lato ci sarà un presidente del Consiglio che, sotto la protezione del Re del Quirinale, si sentirà legittimato a comandare dall’alto sul suo Pd. Dall’altro lato, invece, ci sarà un segretario meno morbido, diciamo, rispetto a Guglielmo il Silenziatore Epifani. Un segretario che, anche per non perdere la spinta che riceverà dalla legittimazione dell’8 dicembre, sarà intenzionato a far pesare la sua forza e il suo carisma e a far cambiare verso a quel governo che ormai si può dire sia diventato principalmente a guida Pd. Tutte le principali anime del Pd, naturalmente, vivono questo passaggio con spiriti diversi, con atteggiamenti contrapposti e con comportamenti ciascuno dei quali corrisponde a una diversa direzione che si vorrebbe imprimere alla navigazione del governo. La discontinuità rispetto al passato e la volontà di azzerare le vecchie nomenclature saranno naturalmente le parole chiave di questa – chiamiamola così – fase due del governo ma per capire meglio cosa ci aspetta e capire cosa si muove nel pancione del Partito democratico può essere utile comprendere chi sono davvero i renziani, i lettiani, i cuperliani e – perdonateci – anche i franceschiniani e capire cosa fanno, cosa pensano cosa vogliano e soprattutto che direzione vogliono dare al galeone del Pd.

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La tipologia del renziano è divisa in due anime. La prima è quella del renziano molto orgoglioso che fa parte della prima generazione, quello cioè che parla così tanto la lingua di Renzi al punto da risultare quasi incomprensibile fuori da Firenze. Il secondo è invece quello della seconda ora che non parla la stessa lingua dei renziani puri ma che negli ultimi tempi ha imparato ad adottare con abilità alcuni piccoli trucchi per essere considerato dai renziani veri comunque sia uno di noi. Il renziano di prima generazione attende la data dell’otto dicembre con lo stesso spirito e lo stesso trasporto moderato con cui, ai tempi, gli americani di colore contavano i giorni che li separavano dall’elezione alla Casa Bianca del primo presidente nero. In questo senso il renziano, che in cuor suo, nonostante i giubbottini di pelle e le copertine alla Fonzie, si sente un po’ obamiano e si sente come il portavoce di una chiassosa minoranza che a colpi di sportellate è riuscita ad arrivare a un passo dal conquistare un mondo che lo ha sempre guardato con diffidenza, con perplessità, con sospetto – e che al massimo, quando non lo vedeva come un cavallo di Troia del nemico, lo considerava una risorsa – mai avrebbe immaginato che quella risorsa sarebbe diventata leader. Epperò il renziano, almeno quello di prima generazione, quello che insomma non considera il davideserrismo come una degenerazione del renzismo, scalpita, si dimena, dice che bisogna alzare l’asticella, che bisogna imporre una nuova agenda, che bisogna mettere alle strette il governo e che va bene che Letta è più forte di quello che si pensa ma comunque il governo andrà sfidato perché il vento non si può fermare con le mani, dice sempre il renziano, e dunque un governo guidato da uno che in fondo è diventato un corpo estraneo per il Pd, l’amico Enrico, non potrà mai avere la forza di infilare in un imbuto l’energia del Rottamatore. E così il renziano pensa alle mosse, studia le situazioni, twitta, spesso con dieci, undici dita, arruola blogger, pensa molto alla comunicazione, cura ogni dettaglio, studia ogni articolo di giornale, spesso è ossessionato dai giornali, che ovviamente non sono mai obiettivi e sono sempre ostili, pensa costantemente a come non farsi risucchiare dal buco nero dell’apparato del Pd e prova ogni giorno a dimostrare che il Pd non sarà più come il vecchio Pd, che le correnti spariranno, che i capi bastone svaniranno e che Renzi, stando un po’ a Firenze e un po’ a Roma, facendo diventare il Pd un partito diverso da quello che è stato finora il Pd, riuscirà nel gioco di prestigio di trasformare il Pd in un partito che – dice spesso il renziano con grande trasporto e gravità – “non avrà più paura di vincere”. Epperò il renziano – che legge anche i libri di Fabio Volo, e li apprezza, che guarda anche i film di Checco Zalone, e li rispetta, che legge ogni domenica Eugenio Scalfari, e non lo capisce – sa che ora comincia una nuova fase. Sa che ora dire “dobbiamo rottamare le larghe intese” non è più facile da dire perché le larghe intese, intanto diventate piccole, non esistono più. E sa che per non perdere vitalità, velocità, energia e passo da centometrista dovrà muoversi sempre come una trottola, non farsi stritolare dall’apparato ed evitare che la sua energia sia sacrificata sull’altare della famosa stabilità. Il renziano della prima ora, poi, osserva con inconfessabile diffidenza i renziani della seconda ora – troppo facile, mo’ – perché non parlano la lingua dei renziani e perché spesso si accorgono che molti di loro, molti di quelli che insieme con i renziani della prima ora sognano di rigirare come un calzino l’apparato, sono loro stessi, ehm, dei pezzi dell’apparato. Epperò il renziano che vuole far cambiare passo al governo anche a condizione che il cambiare verso corrisponda a un cambiare direttamente il governo, spesso si morde la lingua, dice e non dice, allude e non allude e crea quella mirabile sensazione di chi sa che la sua forza, adesso, è quella di essere percepito come uno che insieme può voler dire mille cose, e che può essere allo stesso tempo considerato prodiano ma non anti berlusconiano, lettiano ma non governista, democratico ma non strettamente napolitaniano. Il renziano della seconda ora, a sua volta, che ha imparato a osservare la scalata di Renzi con la stessa lucida compostezza con cui, ai tempi, venne seguito il gesto delle mani con cui Mosé provocò l’apertura delle acque, è in realtà allergico alla grammatica di Renzi: fosse per lui non mangerebbe mai sushi, leggerebbe solo saggi di Reichlin, ma di fronte all’inesorabile avanzata della modernità – ah, la modernità – ha accettato di passare ore e ore a smanettare su Twitter, a condividere su Facebook e a non mettere mano alla pistola di fronte alle “war room dei web influencer”. Il renziano della seconda ora, che ha imparato a buttare al tempo giusto la giacca di velluto, è spesso in realtà un bersaniano spaesato, che mai avrebbe pensato di diventare renziano ma che, signora mia, i tempi cambiano, il partito cambia, l’Italia cambia e quindi, per far cambiare tutto, bisogna cambiare anche noi, e cominciare a mangiare Sushi.

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Il cuperliano è uno strano e affascinante mix tra due generi che sono da mesi in lotta tra loro ma che sono accomunati dal desiderio di arginare quanto più possibile la cavalcata drammatica del barbaro fiorentino. E così, il cuperliano, ultimo figlio della Ditta, dell’usato sicuro, si impegna, si sbatte, ci crede, gira, rigira, twitta, posta, dichiara, attacca, sorride, ci prova e ci mette tutta la buona volontà a dimostrare di essere – oltre che molto bello e molto democratico anche molto televisivo, molto innovativo, molto autonomo, molto telegenico e molto adatto ad affrontare appunto la modernità – anche la persona giusta per togliere le ultime macchie rimaste addosso al vecchio Giaguaro e per infilare il Pd dentro una giacca di velluto con le toppe prima che un domani tutti i democratici siano costretti ad andare in giro con la maglietta di Maria De Filippi, il cappellino di Briatore e il giubbottino alla Fonzie. Il cuperliano passa parte delle sue giornate a spiegare ai militanti che sì è vero che Cuperlo è il candidato di D’Alema e Bersani ma è anche vero che Cuperlo non è affatto dalemiano né tantomeno bersaniano e che, a suo modo come Alfano, può essere considerato sia diversamente dalemiano sia diversamente bersaniano. E così il cuperliano, che si riconosce dal renziano perché parla di Renzi più di quanto tendenzialmente faccia il renziano, considera il renzismo come un male persino maggiore del berlusconismo, vede nella battaglia con il Rottamatore una lotta simile a quella condotta dai comunisti per espellere dal perimetro della sinistra il virus mortale socialista, ha una decina di copie inedite del “Tempo delle mele”, tende a mostrarsi, pur essendo tutt’altro che serioso, sempre con lo sguardo pensoso e triste e solitario e final di chi, dall’alto del suo sofferente maglione a collo alto, si muove con lo stile di chi vuol far vincere la sinistra, sì, ma anche di chi è consapevole che un vero uomo di sinistra preferisce perdere le elezioni piuttosto che perdere la propria identità. Epperò il cuperliano si dà comunque da fare, combatte, ama l’odore della polvere da sparo sui campi di battaglia, a differenza del renziano (che cita spesso Pasolini) lui Pasolini non solo lo cita ma lo ha anche letto, conosce a memoria tutte le encicliche di Benedetto XVI (gliele ha spiegate Fassina) e piace da matti al suo popolo, lui che è bello e democratico, sapendo però che il popolo a cui piace è lo stesso che da una ventina d’anni non riesce a far vincere le elezioni alla sinistra. Meglio perdere che perdersi, direbbe il bravo cuperliano, ma nonostante questo il bello e democratico e diversamente dalemiano passa il suo tempo a mostrarsi moderno, a citare in pubblico un giorno una strofa di Guccini (per piacere alla Ditta) e un giorno un ritornello dei Daft Punk (per piacere ai barbari), epperò sa anche che fare la rivoluzione con la bella politica e la bella filosofia è rischioso e dunque pensa a una strategia alternativa per sopravvivere alla cavalcata del renzismo e per far vivere il cuperlismo anche dopo il possibile ciclone delle primarie. Già, come si fa? Si fa così. Si fa preparando la resistenza al bulletto fiorentino, ma tenendosi pronti comunque a occupare i posti che contano nel Pd del futuro. Si fa provando a trasformare il governo Letta-Alfano nel governo del Pd e trasformando a sua volta Letta nel vero rivale del Rottamatore. Si fa puntando a far durare il più possibile quello che comunque resta il primo governo del Pd e andando a fare scouting e casting sui territori per trovare un domani un possibile rottamatore del Rottamatore. Ma il piano è complicato, il ciclone arriva, l’apparato trema, il partito si trasforma, la Ditta è rottamata, Bersani è rimasto a Piacenza, D’Alema si occupa di vini e fa battaglie in Puglia, il Pd ha cominciato a parlare fiorentino stretto e il cuperliano, in questo perfettamente a suo agio con il pensiero dalemiano, sostiene che Renzi può essere sì una risorsa importante per il Pd nel caso di voto anticipato ma sotto sotto, un giorno, spera di prendersi la rivincita e di fare con Renzi la stessa operazione che nel 2008 fece D’Alema ai tempi di Red: riconquistare l’apparato e cacciare via il barbaro invasore. Il cuperliano sogna questo. Ma intanto arriva il ciclone, e noi non abbiamo nulla da metterci.

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L’acrobatico franceschiniano lo riconosci dai dettagli, lo riconosci dal sorriso, lo riconosci da quello stile inconfondibile di chi saprebbe tranquillamente dimostrarti, con sicurezza, caparbietà e senza imbarazzo, che non c’è nessuna contraddizione nel dire che B è il male assoluto e che A è il bene assoluto, e un minuto dopo dirti, con lo stesso sguardo di prima, che invece, che avete capito, il male assoluto è A mentre B, come in fondo abbiamo sempre sostenuto, è il vero bene assoluto. E così, il buon franceschiniano, è l’unica specie democratica a essere riuscita con invidiabile disinvoltura a passare dal dalemismo all’anti dalemismo, dal veltronismo all’anti veltronismo, dall’anti bersanismo all’iper bersanismo, dall’anti lettismo all’ultra lettismo, dal marinismo all’anti marinismo e, ancora, dall’ultra lettismo al fantasmagorico renzismo. L’acrobatico franceschiniano, che in cuor suo non si sente di sinistra e che per questo forse ha passato buona parte della sua vita a dimostrare di sentirsi a casa a sinistra passando allegramente da una casa all’altra della sinistra, è l’evoluzione naturale del famoso figliol prodigo, che dopo aver sperperato le sue ricchezze ritorna a casa, sì, con la differenza però che ogni volta che il buon franceschiniano decide di andare a casa va sempre nella casa di qualcun altro. Epperò il franceschiniano sa di contare, eccome, sa di aver un ruolo importante al governo (è lui, in fondo, il vero capodelegazione del Pd), sa di avere un ruolo importante alla Camera (è lui, in fondo, il vero capogruppo), sa di avere un ruolo importante nel partito (sarà lui, in fondo, il vero vicesegretario del Pd), ma nel dubbio non si sbilancia, non si espone, cuce, ricuce, incontra, parla, telefona, messaggia, e strizza l’occhio a Matteo (tranquillo, tra poco tocca a te), e strizza l’occhio a Enrico (tranquillo, prima che tocchi a Matteo ce ne vuole), e ragiona sul futuro, pensa già al prossimo fondamentale romanzo e rimane sempre nello straordinario equilibrio di chi, per esempio, sogna di cambiare subito la legge elettorale rottamando il proporzionale ma allo stesso sogna di rottamarla con calma, che fretta c’è, sperando che poi una qualche sentenza imponga di cambiare la legge rottamando il maggioritario. Il franceschiniano in versione Zelig – specializzato nelle acrobazie e nella trasformazione delle truppe cammellate in formidabili truppe camaleontiche – mostra sempre soddisfatto ai suoi amici il poster di Benigno Zaccagnini, per mostrarsi al passo con i tempi la sera canta gagliardo con gli amici “Laic a rollino stooon”, si fa crescere la barba nei momenti di svolta, cita a memoria alcuni passaggi della prosa asciutta, ricca e avvolgente degli scritti dell’amico Dario, ha almeno cinque o sei copie della “Follia improvvisa di Ignazio Rando”, dice che Ignazio Rando gli ricorda un ex segretario di sinistra, dice di sognare il partito liquido (anche se poi lavora per il partito solido, ché il franceschiniano nella solidezza ci sguazza), gira l’Italia per incoraggiare la sua corrente, legge molto Repubblica, la leggeva di più quando prima Dario andava sempre a pranzo con Ezio, non legge l’Unità, anche se la compra tutti i giorni, non si perde un’assemblea nazionale, una convenzione locale, una riunione condominiale, dice qualsiasi cosa sui famosi centouno, sui traditori di Romano, ma poi dice anche che Franco, nel senso di Marini, doveva diventare presidente, e che Romano non era quello giusto per unire il paese, e quindi dice che no, no, Romano non l’ha tradito ma sa che senza quei centouno il franceschiniano sarebbe probabilmente a Bettola in una bella pompa di benzina non a fare l’ombra di Enrico, non a fare il vice virtuale di Matteo, non a fare la chioccia di Roberto Speranza ma molto più semplicemente a fare il pieno all’amico Bers.

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Il lettiano, oltre a essere l’unica categoria di politico pronta a smentire con velocità di avere due belle e grosse palle d’acciaio, è l’unico animale del Pd a sentirsi eccitato e spaesato, incoraggiato e smarrito, sollevato e preoccupato e passa molto del suo tempo a spiegare ai cronisti perché Matteo non ha capito, perché Matteo ha sbagliato, perché Matteo ha esagerato, perché Matteo se continua così fa la fine di Bersani e perché Matteo non ha capito che inseguendo Grillo, spostandosi a sinistra, facendo la parte di quello che vuole trasformare in detersivo il governo (Finish!), si allontana dai suoi vecchi elettori, si schiaccia troppo di là, lascia molto spazio aperto di qua, e il lettiano, pur non potendolo ammettere – e pur vivendo sempre nella condizione della sogliola che osserva dal fondo del mare, mimetizzata con la sabbia, il passaggio sopra di sé dei pesci più grandi – si sente, lui sì, il vero renziano, quello che potrebbe piacere non solo a sinistra ma anche al centro e perché no anche a destra, come un tempo faceva l’amico Matteo. Lo vedi Mario che i miracoli esistono? E così il lettiano in versione sogliola è lì che aspetta, che tenta di prendere tempo, di dilatare la vita del governo, di triangolare con il presidente, di far passare uno a uno i pescecani, ed è lì che ti dice che il governo deve durare fino al 2015 ma tra la parola “durare” e la parola “fino” da qualche ora ha cominciato a sussurrare anche la parola “almeno”. Perché, si sa, il governo, ora che è un governo a trazione Pd, non può certo essere fatto cadere dal segretario del Pd. Perché, si sa, il governo, ora che è un governo per il quale si sono spesi anima e core gli amici di Angelino, non può certo cadere oggi, che sennò, a via del Plebiscito, i pescecani sono pronti a trasformare il Delfino in un agnello da sacrificare. Perché poi, si sa, c’è il fondamentale semestre europeo – a proposito, tutto bene con la Lituania? Poi, si sa, ci sono anche i mondiali in Brasile – e che fai, fai cadere il governo mentre Pirlo piazza la palla sulla zolla? Poi, si sa, finito il semestre comincia l’Expo? E poi che fai, una volta che il governo arriva al 2016 perché non farlo arrivare alla fine della legislatura? Ecco. Il lettiano, che in cuor suo non si sente cuperliano, che in cuor suo non si è mai sentito neppure pienamente bersaniano e che in cuor suo si sente più alfaniano che renziano, ogni volta che sente nominare le parole “Giorgio”, “Colle”, “Quirinale” istintivamente china il collo dall’alto verso il basso con un movimento non troppo diverso da quello che farebbe la signora Biancofiore di fronte alla parola Silvio. Il lettiano, poi, si muove a Palazzo Chigi con il passo sicuro di chi sa che il governo oltre alle famose palle d’acciaio – le balls of steel, o yea – ha accanto a sé una serie di alleati con i quali far diventare nelle mani di Renzi la rottamazione una specie di autorottamazione. E così, il lettiano, che ti parla con la voce piatta di chi vuole farti intendere che mentre è lì a parlare con te in italiano potrebbe tranquillamente essere in una qualsiasi altra parte del mondo a parlare in tedesco con Angela, in francese con François, in spagnolo con Mariano, in inglese con Barack, dice che ora che il governo è un governo a guida Pd e che per questo – dice mostrandoti uno a uno i numeri con i nomi e i cognomi dei deputati e dei senatori dei gruppi parlamentari – il vero segretario non sarà il segretario ma sarà il presidente del Consiglio. Il lettiano però dice di non fidarsi di Matteo, dice di non fidarsi neanche di Dario, dice di non fidarsi più nemmeno di vecchi amici come Francesco e dice che in fondo si può andare avanti anche fino al 2065 ma che con Matteo, se le cose dovessero mettersi male, un accordo si può fare. Con Matteo a Roma ed Enrico in Europa. Il lettiano dice che mai si sarebbe immaginato di arrivare a Palazzo Chigi. Dice che per mesi si era invece preparato per guidare l’Economia. E dice tutto questo sempre con l’aria grave e impegnata e scavata di chi ti parla con il tono severo di chi vuole farti capire che qui, mentre voi scherzate, noi stiamo realizzando qualcosa di fondamentale per il futuro dell’umanità. Ché in fondo il lettiano non ha tutti i torti. Perché prima di dire basta con questo governo, per il Pd, era facile: c’era Berlusconi. E ora che Berlusconi non c’è più e che la vita del governo dipende dal Pd come può il Pd far cadere il governo del Pd. E allora lo vedi Mario che i miracoli esistono!

FQ. di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, 29 novembre 2013 - ore 09:30 

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