Ripassino per Prodi su come andarono

davvero le cose tra lui e Cuccia

Fra gli anni 80 e gli anni 90 vi furono due scontri terribili fra Enrico Cuccia e Romano Prodi, allora presidente dell’Iri. Il primo, fra il 1984 e il 1988, riguardò il progetto di privatizzazione di Mediobanca predisposto da Cuccia e al quale Prodi fu totalmente e fermamente contrario. Il secondo si svolse quando Prodi tornò a essere chiamato da Ciampi alla presidenza dell’Iri nel 1993 e riguardò la privatizzazione delle tre banche di interesse nazionale (Bin) e il loro controllo successivo. In entrambe le circostanze, Cuccia ebbe la meglio. Prodi non deve averlo mai dimenticato.

Enrico Cuccia aveva chiaro da molto tempo che Mediobanca, per il suo peso negli affari e soprattutto per le sue partecipazioni azionarie in una serie di grandi gruppi come le Generali, era una preda prelibata per il sistema politico e per la Democrazia cristiana in particolare, come parimenti lo era stata la Comit di Mattioli all’inizio degli anni 70. Quando, nel 79, l’Iri impose alla presidenza di Mediobanca il suo direttore finanziario Fausto Calabria, fu il primo segnale che l’attacco politico era cominciato. Nell’82, l’Iri, non ancora presieduto da Prodi, impose le dimissioni di Cuccia da direttore generale e amministratore delegato di Mediobanca per raggiunti limiti di età. Fu il secondo segnale. Il terzo fu la nomina di Romano Prodi alla presidenza dell’Iri nell’82. Erano note le opinioni di Andreatta, che quella nomina aveva patrocinato, sul “diritto-dovere” della Dc di disporre, per le responsabilità di governo che essa aveva, degli strumenti più efficaci per guidare l’economia. In questo quadro Cuccia era un ostacolo poiché rappresentava il puntello del sistema delle imprese private. Era chiaro che la mainmise – come la chiamava Cuccia – da parte della Dc era imminente: la nomina di Prodi era il segno che la battaglia era cominciata e sarebbe stata una battaglia mortale.

Cuccia preparò un progetto che prevedeva la costituzione di un patto di sindacato – aggiornato rispetto a un patto in essere fin dal 1958 – fra vari enti privati, fra cui la Banca Lazard, e le Bin, in cui i poteri sarebbero stati paritetici fra i partecipanti. Le Bin avrebbero dovuto congelare, fuori dal patto, una parte delle loro azioni. Il progetto, trasmesso a Prodi e tenuto da Mediobanca rigorosamente riservato, filtrò all’esterno attraverso due articoli su Repubblica di Cesare Merzagora, il quale scrisse anche che gli risultava che Prodi fosse contrario (dando quindi un chiaro indizio su chi lo avesse informato del progetto). Seguì una bagarre parlamentare e in Parlamento Prodi dichiarò che le Bin dovevano restare le controllanti di Mediobanca. Il passo successivo di Prodi fu l’ordine dato alle Bin nel 1985 di non riproporre il nome di Cuccia come consigliere di amministrazione di Mediobanca. Senza Cuccia, Mediobanca sarebbe divenuta un osso assai meno duro. Uno dei due amministratori delegati della Comit si oppose. Era Franco Cingano, di cui, di lì a poco, Prodi avrebbe preteso le dimissioni. L’altro, Braggiotti, di cui Prodi ieri ha parlato con evidente nostalgia, era invece d’accordo con l’Iri.

L’assemblea di Mediobanca dell’85 fu una vera e propria beffa per Prodi, perché Cuccia, escluso dalla lista dei consiglieri proposti dalle Bin d’accordo con l’Iri, fu eletto in consiglio nella quota riservata ai soci esteri e alla banca Lazard in particolare. Appena rieletto, Cuccia riprese la paziente tessitura della privatizzazione.

Una nuova versione del progetto fu sottoposta a Prodi nell’86. Le Bin si divisero: il Banco di Roma, ampiamente dominato dalla politica, fu contrario, il Credito favorevole e la Comit divisa fra Cingano, favorevole e Braggiotti allineato con Prodi. All’inizio del 1987, Prodi convocò Cingano e ne pretese le dimissioni da amministratore delegato della Comit, sostituendolo con Sergio Siglienti, schierato con l’Iri. Ma nel frattempo era maturata in Mediobanca, con il consenso del presidente della Repubblica, Cossiga, la presidenza di Antonio Maccanico. Questo fu determinante.

Maccanico aveva un eccellente rapporto politico con De Mita, allora segretario della Dc. Ciò sottrasse a Prodi un sostegno vitale. Maccanico era inoltre in buoni rapporti sia con il Psi che con il Pci, per cui ne attenuò il pregiudizio contro le privatizzazioni. Nel giro di qualche mese, la privatizzazione di Mediobanca fu cosa fatta. Le Bin scesero al 25 per cento e il patto di sindacato previde che esse NON avessero il potere di controllo su Mediobanca. Mediobanca era salva dalla mainmise.

Prodi ritorna presidente dell’Iri nel 1993, chiamato da Carlo Ciampi, allora presidente del Consiglio.

Nella grave situazione finanziaria di quel momento, la privatizzazione delle imprese sotto il controllo pubblico apparve indispensabile e inevitabile. Le Bin erano fra i pochi cespiti di qualche valore. Comincia una durissima battaglia in seno al governo. Prodi vuole trasformare le Bin in public company con un azionariato così frazionato da non consentire il formarsi di  gruppi di azionisti di riferimento che prendano in mano la gestione delle tre banche. Cuccia ha una visione diversa della governance delle imprese: ritiene indispensabile che vi siano gruppi di imprenditori che assumano su di sé la responsabilità della gestione e siano pronti a sobbarcarsi gli oneri conseguenti. Egli inoltre sa che, nel disegno di Prodi, la public company è essenzialmente uno strumento per mantenere alla guida delle banche i vecchi dirigenti designati e graditi dalla mano pubblica. Pensa quindi a un modello diverso, basato su un gruppo di azionisti privati per ciascuna delle tre banche che si assumano il compito di costituire un nucleo stabile – un noyau dur – di gestori. Ritiene anche che, se le Bin divengono effettivamente private e non solo private sulla carta, sarà più garantita l’autonomia di Mediobanca.

Dentro il governo nasce uno scontro fra Prodi, da un lato e i ministri Barucci e Savona, dall’altro. Prodi vorrebbe imporre un limite bassissimo al possesso azionario da parte di un singolo investitore in modo da impedire il formarsi dei noccioli duri. Barucci e Savona sono assolutamente contrari a questa impostazione. Alla fine il presidente del Consiglio sancisce che il limite al possesso azionario è il 3 per cento. Quando si riunisce l’assemblea delle tre Bin all’indomani della privatizzazione, Prodi scopre che si sono formati dei gruppi di azionisti stabili – esattamente quello che non voleva. Che si sia trattato per lui di una dura sconfitta lo scrive Ricardo Franco Levi nel 1996, nella sua biografia di Prodi. E Ricardo Levi è certamente un testimone attendibile di quello che Prodi ha pensato e sentito.

Questo è il background dei discorsi tenuti ieri a Milano a proposito di Mediobanca. E’ utile tenerlo presente nell’interpretare il senso delle cose che sono state dette.

di Giorgio La Malfa, Il Foglio, 6 dicembre 2013 - ore 14:09

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