Padoan, aria moscia, prezzi funerei. Intervista

Cosa vuole l’ oggi Ministro  in Gennaio 2014

Tra apertura di credito dei mercati e rischio deflazione, l’Europa ha poco tempo per muoversi. Per Padoan (Ocse), l’Italia ha riformato poco o nulla. Pure Berlino e Bce devono fare i compiti per salvare l’euro

Da qualche settimana, a giudicare dall’osservatorio parigino dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo che racchiude 34 paesi e tutti i più industrializzati del pianeta), i contorni della ripresa sono tornati a essere fragili. Gli Stati Uniti si muovono sul terreno più solido della crescita economica, il Giappone è un po’ indietro ma sulle loro orme, l’Europa segue a distanza tutti gli altri e corre il rischio aggiuntivo di scivolare indietro nelle braccia di un “orco” chiamato “deflazione”, per usare le parole enfatiche di Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale. Perciò Pier Carlo Padoan, capoeconomista dell’Ocse, parla al Foglio di “una finestra temporale” che l’Eurozona – e in particolare l’Italia – deve sfruttare. Adesso o mai più.

Complicato trasmettere questo senso d’urgenza mentre lo spread dei rendimenti tra titoli di stato periferici e bund tedeschi è ai minimi: “E’ vero, c’è il rischio di un calo della tensione riformatrice”, dice Padoan, uno dei più stimati economisti italiani. “I mercati ci hanno concesso un’apertura di credito temporanea, garantita da un afflusso di liquidità globale dai paesi emergenti e da un processo di aggiustamento che lascia appena intravedere la ripresa”. Dai numeri dell’Ocse, però, s’intravvede “un’eccezione europea” rispetto al resto del mondo sviluppato. “La deflazione, cioè il calo generalizzato del livello dei prezzi, con tutte le sue conseguenze negative, non è un rischio globale. Negli Stati Uniti i prezzi sono deboli, ma la prospettiva è quella di un rafforzamento ulteriore dell’ecomomia”. Il pil dovrebbe crescere del 2,9 per cento nel 2014, dopo il più 1,7 del 2013. “Il Giappone, grazie alle scelte espansive dell’Abenomics, ne sta venendo fuori”. L’Eurozona invece, dove il pil è dato in crescita di un solo punto quest’anno, dopo la flessione dello 0,4 nel 2013, “ha un tasso medio d’inflazione basso, lo 0,7 per cento”, distante dal livello fisiologico del 2 per cento. “In alcuni paesi della periferia, la deflazione già c’è. In altri ci sono prezzi al ribasso ma non ancora negativi”. In Italia, nel 2013, i prezzi sono aumentati dell’1,2 per cento, ai minimi dal 2009. “La deflazione ci sarà davvero quando il comportamento di imprese e famiglie cambierà e questi si aspetteranno prezzi più bassi in futuro”. Il problema è che questo “cambio di comportamento” è difficile da riconoscere per tempo. Ce ne potremmo quindi accorgere troppo tardi, quando l’attesa di prezzi “più convenienti” sarà così diffusa da aver già bloccato consumi e investimenti, aggravando la spirale recessiva. “Per i paesi indebitati questo crea un problema aggiuntivo”, dice Padoan. “Se i prezzi scendono, il pil nominale può diminuire anche a fronte di una timida ripresa del pil reale, cioè depurato dall’andamento dei prezzi. Così il rapporto tra debito pubblico e pil nominale aumenta, rendendo insostenibile la situazione dei debitori”.

Tuttavia ci sono osservatori e politici che nel calo dei prezzi riconoscono un pegno da pagare per quei paesi dove i prezzi erano saliti troppo prima della crisi; e che parlano di una maggiore competitività che staremmo riguadagnando. Padoan non è d’accordo e mette in guardia da un approccio esclusivamente contabile alle grandezze statistiche: “Nei paesi dell’Europa del sud c’è stato un aggiustamento feroce negli ultimi due-tre anni, e il calo dei prezzi attuali è frutto soprattutto della compressione della domanda interna e dell’aumento della disoccupazione. Un aggiustamento ‘virtuoso’ delle economie periferiche non passa per una mera contrazione dei salari nominali: consiste invece in un aumento della produttività”, cioè della capacità di trasformare lavoro, beni e servizi in prodotti.

“Paradossalmente, se la produttività cresce molto in un paese meno competitivo, i salari possono pure aumentare mentre il costo del lavoro per unità di prodotto diventa più conveniente”. In Europa non sta andando proprio così: “All’Ocse prestiamo attenzione soprattutto alla produttività totale dei fattori”, un indicatore che misura la crescita nel valore aggiunto attribuibile a lavoro, progresso tecnologico ed efficienza della Pubblica amministrazione, insomma a tutto ciò che influisce sul sistema produttivo. “Nella maggior parte dei paesi periferici, l’aggiustamento finora si è tradotto sempre in una compressione dei salari, e solo in parte è stato strutturale”. E’ vero che paesi come la Spagna e l’Irlanda hanno imboccato con più decisione la strada delle riforme? “E’ certo che in Italia la tendenza di lungo termine della produttività totale dei fattori è rimasta invariata”, ammette Padoan. “Riforma del mercato del lavoro e liberalizzazioni nel settore dei prodotti e dei servizi sono ineludibili”.

Si rafforzano le voci di chi dice che nemmeno questo basterà, che i problemi sono nella stessa architettura istituzionale della moneta unica. Il contributo della Germania, per esempio, potrebbe essere maggiore. Padoan osserva che “da tempo, come Ocse, diciamo che l’ideale sarebbe un’inflazione un po’ più alta del 2 per cento, anzi un bel po’ più alta, in Germania e nei paesi del nord Europa. Lì la produttività cresce, quindi la competitività non risentirebbe di un aumento dei prezzi. In questo modo basterebbe un’inflazione al 2 per cento nell’Europa del sud per rendere meno gravosi l’aggiustamento strutturale e il fardello debitorio”. Per ora la tendenza è inversa: inflazione attorno al 2 per cento al nord e rischio deflazione al sud. Perciò un ruolo deve giocarlo anche la politica monetaria, secondo il capoeconomista dell’Ocse: “Non mi preoccupano le divisioni dentro la Banca centrale europea, anche se a volte appaiono troppo forti le ‘posizioni nazionali’. Tuttavia sarebbe sufficiente che la Bce dicesse che è pronta a fronteggiare un’eventuale deflazione, nominando misure specifiche come il taglio dei tassi sui depositi per incentivare le banche a erogare credito, oppure un esplicito Quantitative easing sul modello della Fed, con acquisto di titoli di stato sul mercato secondario senza condizionalità. In fondo bastò una frase di Draghi, nel 2012, a placare lo spread”. Poi ci sono le riforme istituzionali dell’area euro. Padoan non nasconde il suo scetticismo sull’accordo raggiunto sull’Unione bancaria: “Occorre da subito un pool di risorse comuni per tamponare eventuali fallimenti bancari, e poi una semplificazione del processo decisionale per utilizzare queste risorse”. Infine, sul fronte fiscale, “la messa in comune di risorse tra paesi dell’euro è inevitabile. Non esiste Unione monetaria nella storia che sia sopravvissuta senza una qualche integrazione fiscale”. Padoan evoca una “golden rule per la disoccupazione”, quindi la possibilità di sottrarre al conteggio del tetto europeo al deficit quelle risorse utilizzate per combattere la disoccupazione. E se gli Eurobond sembrano scomparsi dal dibattito pubblico, dice di apprezzare l’idea – sostenuta per esempio dall’economista dell’Università di Chicago Luigi Zingales – di “istituire meccanismi comuni di stabilizzazione fiscale che si attivino automaticamente nei paesi dove la disoccupazione è maggiore”. A patto di ricordare che, tra la calma apparente dei mercati e il rischio concreto di una spirale deflazionistica, “lo spazio per politiche efficaci, nazionali e poi europee, è strettissimo”, conclude Padoan.

FQ. di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp

21. GENNAIO 2014

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