Il tecno-politico Padoan, pro riforme

a Roma e anti status quo in Ue

Se chiedi ai tecnici, quelli fieri di essere tali, dicono che non è uno di loro. Se chiedi ai politici, sottolineano che non è “totus politicus”. E’ anche per questa felice ambiguità che ieri Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e in predicato di divenire presidente dell’Istat, ha preso un aereo da Sydney – dove si trovava per seguire il G20 – alla volta di Roma, per diventare ministro dell’Economia del nascente governo Renzi. Padoan e il segretario del Partito democratico non si conoscono personalmente, e di questo i rispettivi entourage non fanno mistero. Siamo dunque alla prima pesante ipoteca imposta dall’esterno (leggi: Quirinale) sul governo del Rottamatore? Non è detto.

Padoan – 63 anni, origini piemontesi (la madre è stata insegnante alla scuola Ferrante Aporti a Roma, in classe c’era anche l’Elefantino), sposato e con due figlie – fino al 1998 è professore di Economia all’Università La Sapienza. E’ di quell’anno la svolta professionale che lo allontana dall’accademia dura e pura: diventa consigliere economico di Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, e all’interno del triumvirato di teste d’uovo di Palazzo Chigi – formato assieme a Nicola Rossi (poi senatore del Pd) e Claudio De Vincenti (poi sottosegretario allo Sviluppo nei governi Monti e Letta) – Padoan si occupa soprattutto di economia internazionale. Così a fine legislatura viene indicato da Vincenzo Visco come direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, sostenuto anche dal ministro dell’Economia di centrodestra, Giulio Tremonti, che infatti lo conferma nel suo ruolo per un altro mandato, fino al 2005. I rapporti con Tremonti sono cordiali, Padoan non ha mai mancato – anche nelle scorse settimane – di offrire il suo contributo all’Aspen, pensatoio trasversale presieduto dall’ex ministro dell’Economia. Ma il think tank preferito, ovviamente, è la Fondazione ItalianiEuropei di D’Alema, di cui è stato direttore. L’etichetta di “dalemiano”, si schermisce lui, lo perseguita più del dovuto: proprio questa nomea spiegherebbe le inattese difficoltà incontrate in Parlamento per la nomina alla presidenza dell’Istat; nomina che comunque sarebbe stata ufficializzata in queste ore, e che è stata proposta da Enrico Letta alla fine del 2013. Fosse stato per Enrico, suo amico, forse sarebbe stato già a Via XX Settembre al posto di Saccomanni; così, alla prima apertura di una posizione degna, l’Istat, ecco la candidatura a dicembre. Meno dell’Istat non si poteva fare, perché nel frattempo, nel 2007, Padoan era diventato vicesegretario generale dell’Ocse, l’Organizzazione internazionale dei paesi industrializzati, e poi nel 2009 capo economista della stessa organizzazione con sede a Parigi. Il Corriere della Sera, nel 2007, scrisse di “una conversazione dai toni accesi” tra l’allora premier Romano Prodi e la cancelliera tedesca Angela Merkel che per quella carica aveva in mente qualcun altro. Chissà, forse la cancelliera aveva capito che Padoan qualche libertà di tono se la sarebbe concessa, eccome.

Infatti, dopo una prima fase della grande recessione in cui il paradigma dell’austerity pareva inscalfibile, anche l’Ocse – come il Fmi – ha cominciato a dubitare della bontà della cura da cavallo che l’Europa si è autoimposta. Padoan non è un Draghi boy, ma certo non è ascrivibile al “partito tedesco”, e negli ultimi mesi ha dato a vederlo. “Unisce expertise economica ed esposizione ai vertici politici mondiali, visto che partecipa da anni a tutte le riunioni di G20 e G8 – dice al Foglio Domenico Lombardi, direttore economico del think tank canadese Cigi, collaboratore di Padoan al Fmi per quattro anni – La sua posizione articolata sui temi europei potrà tornare utile in un rapporto più dialettico con Bruxelles”.

Vorrà sforare il tetto del 3 per cento al rapporto deficit/pil, si chiedono in molti? Difficile a dirsi, certo è che lo status quo non lo convince. Tenterà di proporre “golden rule” per gli investimenti nei paesi con la disoccupazione troppo elevata (come da intervista al Foglio di un mese fa); da ministro insisterà dietro le quinte per una politica monetaria più espansiva da parte della Bce (dall’Ocse lo ha fatto anche in pubblico, sostenendo Monti nel cruciale giugno 2012 in cui Roma chiese l’attivazione dello scudo anti spread); saprà sostenere – con alla mano gli stessi numeri che cita da mesi – che l’aggiustamento macroeconomico deve portarlo avanti pure Berlino, stimolando gli investimenti domestici e accettando un’inflazione più elevata di quella attuale. L’Italia però non può esentarsi dai compiti a casa, anzi: più libertà di licenziamento, più welfare ai lavoratori e meno cassa integrazione alle aziende, meno tasse su imprese e lavoratori (anche a costo di tassare gli immobili), più liberalizzazioni (quella degli orari dei negozi lo convinse molto), spending review perpetua. “Una scelta molto ragionevole. Ora è bene che i rapporti tra Renzi e Padoan siano i più stretti possibili – dice al Foglio l’economista Nicola Rossi, amico di lunga data del neo ministro, con cui condivide la passione per il buon vino – Il premier deve dare legittimazione e copertura politica al ministro, e il ministro potrà sostenerlo con la sua competenza tecnica e diplomatica”. A patto che Padoan, grande tifoso della Roma, dimostri proprio nella Capitale di saper gestire e tenere testa alla imponente macchina burocratica di Via XX Settembre, in particolare la Ragioneria (da sempre restìa a commissariamenti esterni) e il dipartimento Finanze.

Leggi anche;Lo Prete L'intervista di Padoan al Foglio, un mese fa, su deflazione e riforme

FQ. di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaler, 22 febbraio 2014 - ore 15:30 

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