Federica Mogherini: Farnesina politica, una Nato

aggressiva non serve a nulla con Putin

Conversazione su tutto: Iran, Siria, Israele, spese per la Difesa, Marò. No tecnicismi, intesa Roma-Berlino

Bonino chi? Sono le sedici e trenta quando Federica Mogherini arriva nel suo ufficio al primo piano della Farnesina per incontrare i cronisti del Foglio e per provare a spiegare attraverso una lunga chiacchierata con il nostro giornale quella che, con un sorriso, il ministro degli Esteri accetta di definire la dottrina Leopolda. La dottrina Leopolda è un insieme in cui Mogherini inserisce come in un grande shaker la posizione del governo italiano sul realismo politico, il dossier ucraino, il rapporto con Putin, sul futuro della Siria, l’interventismo dell’America, la sintonia con la Germania, il destino dell’Iraq, la dittatura della trasparenza, le conseguenze dei fenomeni alla Snowden. Un complesso di cose in relazione alle quali il ministro spiega la posizione del governo sul pasticcio ucraino (“non si può ragionare solo parlando di buoni e cattivi”), sulla possibile soluzione del caos siriano (“bisogna coinvolgere ufficialmente l’Iran”). Mogherini accetta di tracciare anche dal punto di vista ideologico la discontinuità che divide questo governo da quello precedente in politica estera. Sintesi: ieri la Farnesina si muoveva con un passo tecnico, oggi alla Farnesina ci si muove con un passo politico.

“Nella storia del nostro paese – dice il ministro Mogherini – c’è sempre stato un grado consistente di continuità in politica estera e questo è naturale, perché la politica estera non è frutto solo delle decisioni del governo ma anche espressione del paese nel suo complesso. E nonostante quello che si pensa, l’Italia e gli italiani hanno una forte proiezione internazionale. Questo non significa che la politica estera è neutra, c’è e ci può essere tanta politica nelle scelte. Nei singoli dossier mi sento in continuità con Emma Bonino. Cosa è cambiato rispetto al passato? Per le caratteristiche che aveva il precedente governo, l’ex ministro degli Esteri non poteva che muoversi come se fosse un ministro tecnico. Oggi l’approccio è diverso. Qui, come per il resto del governo, mi piacerebbe portare un tasso di politicità maggiore rispetto al passato. E questo tasso di politicità non è secondario, ci consente di costruire strategie comuni con i partner europei e non solo. E vediamo bene come sia importante costruire strategie comuni anche in questi giorni di difficili trattative”.

Le trattative, già. Non ci sono buoni e cattivi, nel mondo di Mogherini, ci sono tante situazioni complesse da affrontare “con lungimiranza e con un atteggiamento cooperativo”. Il ministro è convinto che per risolvere le crisi sia necessario investire “sull’interesse comune” degli interlocutori coinvolti: così si creano “win-win situation”, tutti ottengono qualcosa e le crisi rientrano. Alla conferenza di Ginevra sull’Ucraina (il primo incontro a quattro, tra europei, americani, russi e ucraini) è andata come voleva – sperava – Mogherini: ci si è accordati per evitare violenze, intimidazioni, provocazioni, e c’è stato un appello al disarmo di tutti i gruppi illegali. Alla vigilia del vertice, il ministro si augurava che “si uscisse almeno con un’altra data, con un altro incontro, con una road map”, con quella “de-escalation” che è la parola usata anche dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e dall’americano John Kerry.

L’approccio dell’Italia alla crisi ucraina è allineato a quello della Germania – citato spesso il collega socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier – e ha come obiettivo abbassare i toni bellicosi, “una soluzione politica della crisi”: “Non è la Nato il terreno più utile per risolvere la crisi, anche per non farla sembrare antagonista”. Si punta piuttosto sulle istituzioni internazionali, con gli osservatori dell’Osce “che sono già dislocati sul territorio ucraino e preparano il terreno per le elezioni del 25 maggio”, con le Nazioni Unite sempre all’erta e con i vertici del G7/G8 studiati apposta per soppesare decisioni e cambiamenti. La storia di queste istituzioni non è strettamente legata al concetto di efficacia, però è diplomaticamente rassicurante contare sul fatto che gli uomini delle istituzioni internazionali, che quando arrivarono in Crimea furono chiusi dentro dei bar e poi invitati a levarsi di torno, ora possano riportare l’Ucraina sulla via della pace. La Russia non va combattuta, va convinta al “dialogo, al coinvolgimento”, bisogna sempre chiedersi dove si vuole arrivare. “Qual è la soluzione, una guerra nucleare? Non la vuole nessuno, allora cerchiamo strade per i negoziati”, dice Mogherini, che considera ogni strategia punitiva – comprese le sanzioni, “se utilizzate come unico strumento” – un passo indietro, non in avanti.

La belligeranza della Russia, che schiera truppe al confine e che ingloba un pezzetto di Ucraina, non va alimentata, va contenuta e resa reversibile. In realtà l’annessione della Crimea alla Russia crea qualche dubbio: Mogherini ricorda che c’è stato un coro unito dell’occidente nel condannare quel referendum come “illegale e illegittimo”, “abbiamo tutti usato le stesse parole ed è stato un messaggio chiaro, ma è la dimostrazione del fatto che non bastano messaggi, neanche i più duri, per trovare soluzioni”, ricorda. E poi? Poi niente, l’integrità territoriale dell’Ucraina, sbandierata come principio inviolabile, è scivolata via, come molte altre linee rosse e ultimatum che sono stati lanciati dall’occidente. Mogherini è preoccupata, dice che “non è soltanto la modifica dei confini di un paese sulla base di un atto non riconosciuto a essere pericoloso, lo è anche e soprattutto il fatto che questi confini siano stati ridefiniti sulla base di ragioni etnico-linguistiche”. Un precedente grave, “che tutti nel mondo hanno interesse a contrastare”, che però va messo in prospettiva, perché la logica è quella della lungimiranza (e anche dell’anticipare quel che può andare storto, “che la situazione in Ucraina stesse precipitando era piuttosto evidente, quando è fallita la negoziazione con l’Unione europea”, dice il ministro).

Bzz. Rumore in ufficio. Mogherini si ferma un attimo. Osserva con sguardo perplesso i suoi interlocutori. Si alza di scatto dalla poltrona. Si avvicina al tavolo. Impugna un telecomando. Lo indirizza verso un climatizzatore che si era improvvisamente acceso e preme il tasto off. Il riscaldamento. Mogherini fa un sorriso e capisce che la nostra conversazione non può che virare verso un argomento preciso: il gas. “Ok, chiedetemelo, dài…”. Il Foglio fa notare al ministro che sul dossier russo c’è qualcosa che non torna. Da un lato c’è Renzi che dice che l’Italia non ha paura delle ripercussioni energetiche generate dalle sanzioni e dall’altro lato c’è l’ex numero uno dell’Eni, Paolo Scaroni, che dice che l’Europa, importando il trenta per cento del gas da Gazprom, non è in condizioni di imporre sanzioni. Dov’è la verità? “La verità ha tre facce. La prima ci dice che l’Italia ha una sua indiscutibile autonomia energetica e in fondo abbiamo una dipendenza dal gas russo che si trova nella media rispetto agli altri paesi europei. La seconda ci dice che la Russia ha fatto capire in ogni modo che non interromperà il suo flusso perché non le conviene economicamente. La terza ci dice che l’Europa farà di tutto per evitare che le prossime eventuali sanzioni possano produrre un contraccolpo a livello energetico, e per una ragione precisa: perché il primo paese che subirebbe un contraccolpo fatale è il paese che vorremmo aiutare con le sanzioni, ovvero l’Ucraina”.

Pausa. Telefonata. Sorrisi. Giro di caffè. Mogherini poi riprende il ragionamento sull’Ucraina per sottolineare una triangolazione cruciale per gli attuali assetti geopolitici e quella triangolazione riguarda la Germania, paese con il quale il ministro degli Esteri si sente di certificare “un asse tra Roma e Berlino”. “Ho detto asse tra Roma e Berlino? No, via, diciamo un’intesa perfetta, un’identità di vedute, una comune lettura delle crisi, dài…”. Mogherini sposta il fuoco dell’inquadratura dall’Italia al resto dell’Europa e sostiene che l’identità di vedute sul caso Ucraino-Russo tra il governo italiano e quello tedesco ha avuto un effetto importante: ammorbidire l’approccio muscolare che alcuni paesi, come per esempio la Polonia e la Francia, avevano suggerito.

“La mia, la nostra convinzione è che su dossier delicati come questi è necessaria una rottura rispetto al passato. Non mi piace il termine ‘regime change’, ma laddove ci sono dittature, violazione dei diritti umani o dei princìpi internazionali è chiaro che si deve trovare il modo di intervenire. Con la politica. E’ chiaro anche che l’opzione militare resta sempre possibile, ma come ultimo strumento, e non è detto che risolva i problemi, a volte li aggrava. La storia recente ce lo insegna: un intervento militare può essere valutato necessario o meno, ma in ogni caso la vera soluzione passa sempre per la politica. E’ per questo che noi e la Germania, in Ucraina, cerchiamo di evitare che la parola ‘Nato’ sia utilizzata per spaventare qualcuno. Sarebbe controproducente. Il nostro approccio è questo”. Il discorso, dice ancora il ministro, vale tanto per l’Ucraina quanto per la Siria. La Siria, ecco. Non ci sono buoni e cattivi, d’accordo, ma in Siria?

“C’è una guerra da tre anni, c’è un disastro umanitario – spiega Mogherini – e l’ultimo round di negoziati, Ginevra 2, non ha prodotto veri risultati”. In Siria c’è stato un altro precedente pericoloso, quello della linea rossa sull’utilizzo delle armi chimiche violata, ma anche quello è scivolato via, mentre il rais di Damasco, Bashar el Assad, organizza per inizio estate una tornata elettorale nei pezzi di Siria che ancora gli sono fedeli (gli altri continua a bombardarli nella speranza che s’arrendano).

“Non sono considerate elezioni legittime dalla comunità internazionale”, precisa Mogherini, “si lavora al piano di transizione”, lo stesso di cui si parla da tre anni e che gli assadisti non hanno mai preso in considerazione. “E’ uno stallo”, ammette il ministro, ma poi cerca, come è sua consuetudine, di guardare ai lati positivi – “Il Libano, per esempio, è miracolosamente ancora in piedi dopo tre anni di guerra in Siria” – e pensa a un piano d’azione di lungo periodo. Un piano – ci dice Mogherini offrendoci una notizia – che coinvolge l’Iran: “Bisogna cercare di responsabilizzarlo, perché è suo interesse la stabilità della regione. E coinvolgerlo anche ufficialmente nella soluzione della guerra in Siria potrebbe essere l’unico modo per sbloccare la situazione. Soprattutto ora che il percorso sul negoziato nucleare sta andando bene, potrebbe essere l’occasione per farlo”. Viene da dire che l’Iran è già abbastanza responsabilizzato, in Siria, addestra le forze speciali dell’esercito di Assad, ha ufficiali delle Guardie della rivoluzione sul campo, coordina e dirige le mosse dei miliziani di Hezbollah – sta determinando, assieme ai russi, la sopravvivenza del regime di Damasco. Ma queste sono tragiche contingenze, un processo di coinvolgimento – lo stesso che si applica alla Russia di Putin, perché “i leader passano, ma i paesi e i popoli restano, su quelli bisogna lavorare” – è garanzia di stabilità.

E’ qui che si delinea quel che vorremmo definire una dottrina. Interdipendenza e responsabilizzazione sono le parole chiave: “Così si crea la stabilità, lavorando assieme per trovare un interesse comune”. Mogherini – la cui impostazione non ideologica in politica estera la porta a essere laica, così dice lei, anche rispetto a Israele (“è un errore essere con o contro Israele a prescindere, bisogna valutare le dinamiche interne, le leadership, le singole decisioni. Ho l’impressione che sul processo di pace pesi non tanto la difficoltà del trovare una soluzione quanto la volontà politica di dialogare”) – sottolinea anche che “l’immutabilità non è un principio”, i paesi non restano sempre uguali, cambiano leader, cambiano politiche, cambiano anche aspirazioni. “La Russia non è soltanto Vladimir Putin, così come l’Iran di Hassan Rohani non è quello di Mahmoud Ahmadinejad”. Ci sono sfaccettature, ed evoluzioni che possono portare a grandi cambiamenti, “basti pensare a come stanno andando bene i negoziati con Teheran sul nucleare iraniano”, in corso adesso per trovare un accordo definitivo dopo quello temporaneo raggiunto alla fine dello scorso anno.

Si sente l’eco della strategia obamiana, al netto di quell’idealismo liberale che ogni tanto, soprattutto in occasione dei grandi discorsi e soprattutto quando viene in visita sul continente europeo, Barack Obama lascia intravedere nel suo approccio realista e pragmatico al mondo – non è un caso che anche Mogherini usi queste parole, realista e pragmatico, quando parla della sua dottrina. L’obamismo, che ha contorni ancora fumosi, visto che lo stesso presidente americano evita di farsi incastrare da troppe etichette, costituisce una svolta nella storia della politica estera americana – e di conseguenza anche di quella europea e italiana. “Dalla caduta del Muro di Berlino in poi si sono susseguite diverse visioni del mondo: il cosiddetto progetto del nuovo ordine mondiale, poi dopo l’undici settembre lo scontro di civiltà e infine con l’arrivo di Obama sono diventati prioritari il dialogo, la responsabilizzazione di alleati e non alleati, e la cooperazione”. Si sente vicina a questa visione del mondo, Mogherini, e non soltanto perché quando parla di Obama e di quando l’ha incontrato all’Aia, alla fine di marzo, ancora prima di venire in visita in Italia, le si illuminano gli occhi come in nessun’altra occasione. E’ una visione che prende le distanze da quello che era stato l’interventismo liberal degli anni Novanta, il blairismo e il clintonismo, con l’appoggio anche dell’Italia di Massimo D’Alema nella guerra nei Balcani, perché la protezione di popoli vessati con mezzi militari non è la soluzione. Il mondo è cambiato, dice.

“Quanto all’“esportazione della democrazia’, è stata di tutt’altro segno: non si trattava di proteggere la popolazione, ma di imporre un modello di civiltà, per poi lasciare nella maggior parte dei casi problemi aperti e irrisolti: pensiamo all’Iraq” – con buona pace della “freedom agenda” e dell’idealismo della difesa dei diritti umani. Era necessaria una “cesura”, ed è arrivata con Obama. Gli effetti sono ancora tutti da verificare, perché le strategie politiche, e ancor più quelle di politica estera, hanno bisogno di tempi lunghi per realizzarsi, e per essere valutate. “Sono anche accadute tante cose inedite, ci sono state crisi che non erano immaginabili”, dice Mogherini. Sarà forse che responsabilizzare russi e iraniani non è la via per la stabilità? No. “E’ che la dottrina non è ancora del tutto implementata”, dice con un sorriso il ministro, che è anche il sorriso del suo realismo ottimista, una commistione strana, perché il realismo è spesso associato al cinismo, e allo status quo, e anche un po’ ai musi lunghi. Invece l’ottimismo qui conta, assieme al cambiamento, non sarebbe obamismo altrimenti, ed è illuminato dai quadri nuovi che Mogherini ha fatto mettere nell’ufficio (deve ancora occuparsi dell’arazzo che incombe dietro la sua scrivania, scrivania ordinatissima tra l’altro), un mese e mezzo alla Farnesina e c’è un dipinto che già un po’ la rappresenta: è grande, sul giallo e sull’arancione, s’intitola “Solare”.

Il Foglio interrompe ancora il ministro, riavvolge il nastro e tenta di provocarlo su un nome che a suo modo è stato protagonista due giorni fa durante la conferenza stampa convocata da Vladimir Putin: Edward Snowden. Chiediamo a Mogherini: lei pensa che il modello Snowden, il modello Assange, il modello della dittatura della trasparenza siano da prendere come esempio? Mogherini accenna a un sorriso e la mette così. “Sul caso Snowden mi viene piuttosto da interrogarmi sui criteri utilizzati dalle autorità americane per selezionare il proprio personale. Sulla dittatura della trasparenza, come dite voi, ci sono due piani da considerare. Da una parte penso che sia giusto rendere trasparenti le spese, la rendicontazione e gli aspetti retributivi legati a un’istituzione pubblica. Dall’altra, sul piano della diplomazia ci sono casi in cui la trasparenza può fare male: la diplomazia, una buona diplomazia, non può che vivere anche di ovvi livelli di riservatezza. E’ un principio sacrosanto, purché il segreto di stato non venga utilizzato per nascondere, o magari per coprire, le responsabilità personali”. Mogherini fa un’altra pausa, risponde alla telefonata di un noto senatore dalemiano e infine conclude la nostra conversazione affrontando tre temi delicati: Marò, F-35, grande coalizione in Europa. Il Foglio chiede al ministro se, dopo la sentenza con cui la Corte Costituzionale indiana ha ritenuto ammissibile il ricorso dei Marò per evitare che nei loro confronti vengano utilizzate le pratiche previste per i reati di terrorismo, l’Italia sia davvero a un passo dall’ottenere un risultato importante nella nota vicenda dei due fucilieri. Mogherini si fa seria e risponde con tono imperativo: “L’unica cosa che è utile riaffermare è che non riconosciamo la giurisdizione indiana sulla vicenda. Ma questo è il classico caso in cui i livelli di riservatezza di cui parlavo prima sono indispensabili”.

Sul dossier F-35, Mogherini racconta di essere al lavoro con il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Ieri Renzi ha detto alla fine del Consiglio dei ministri che il governo intende risparmiare circa 150 milioni sul capitolo F-35 (400 milioni sul comparto Difesa) e Mogherini ci consegna questa riflessione. “Su questo tema credo sia sbagliato utilizzare la parola tagli: per quanto riguarda il comparto militare e della difesa è necessario parlare di razionalizzazione e maggiore efficienza. Dunque, non quanto spendiamo ma come possiamo far funzionare meglio la macchina. Stiamo lavorando su questo capitolo e lo stiamo facendo esattamente come lo stanno facendo i grandi paesi dell’occidente, America compresa. Ovvio che puntiamo a qualche risparmio ma lo faremo seguendo criteri politici non tagli lineari”.

La conversazione si chiude su quello che rischia di essere lo scenario che si presenterà a Strasburgo e a Bruxelles all’indomani delle elezioni europee: una nuova grande coalizione. Mogherini ammette il pericolo, è consapevole che i movimenti alla Grillo raccoglieranno in Europa un discreto consenso elettorale (“anche se sinceramente da ministro degli Esteri faccio fatica a intravedere una politica estera di Grillo e del Movimento cinque stelle: semplicemente non esiste, non c’è”) ma considera un rischio per l’Europa uno scenario di grande coalizione simile a quello registrato oggi in Italia, in Germania e in molti paesi dell’Eurozona. “La possibilità esiste ma non sarebbe un elemento positivo. L’Europa ha bisogno di essere cambiata e ha la necessità di avere una maggioranza che abbia un tratto politico. Una grande coalizione europea complicherebbe tutto, porterebbe alla conservazione dello status quo e sarebbe per tutti, e non solo per noi progressisti, un modo, diciamo così, per evitare di far cambiare verso al nostro continente”.

di Claudio Cerasa e Paola Peduzzi FQ. , 19 aprile 2014 - ore 10:30

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