Il caos della politica obamiana in un duello a mezzo

stampa. Ora la Russia minaccia di sanzionare gli amici di Obama

L’America sta facendo una nuova Guerra fredda senza dichiararlo? Tre superesperti di Russia si scannano tra loro

Sarò anch’io sulla lista dei sanzionati compilata dalla Russia? Negli Stati Uniti questa domanda se la fanno in parecchi, perché secondo le indiscrezioni, ieri confermate da Josh Rogin sul Daily Beast, Mosca sta allargando l’elenco degli americani che saranno colpiti da misure restrittive, per ora legate soprattutto alla libertà di movimento – e la sta allargando in grandissimo segreto. Al punto che, per scoprire se già c’è qualche sanzione in atto, alcuni stanno provando a fare domanda di un visto per la Russia: se viene negato, è perché il proprio nome è sulla lista. Vladimir Putin, presidente russo, aveva dato un avvertimento quando, a fine aprile, ha sottolineato: “Per quanto riguarda le sanzioni, considero il primo pacchetto (degli americani, ndr) un atto ostile e illegale contro la Russia, un passo che rovinerà definitivamente i rapporti tra America e Russia e tra America e Unione europea. Quanto al secondo pacchetto, non è nemmeno chiaro di che si tratta, perché non c’è alcun rapporto causa-effetto rispetto a quello che sta accadendo in Ucraina e in Russia”. Ecco che da quel momento a Mosca sono tutti diventati più creativi: Barack Obama è andato sul personale colpendo persone vicine a Putin e ora succederà lo stesso con gli amici del presidente americano – o meglio, con i suoi finanziatori. Il margine di manovra è ampio, e anche vago, ma colpire i rapporti tra business e Amministrazione democratica, in un anno elettorale (si vota alle midterm a novembre: il partito di Obama rischia di perdere anche la maggioranza al Senato), ha un chiaro obiettivo politico. Putin vuole che tutti si interroghino su quel che la Casa Bianca sta facendo con la Russia, soprattutto ora che la guerra nell’est dell’Ucraina è iniziata, ci sono morti e assalti, e ci saranno conseguenze.

Qual è la politica di Barack Obama con la Russia? Decifrarla, nel caos strategico di questa Amministrazione, non è semplice. L’Economist mette in copertina l’aquila americana con una catena alla zampa legata a un mappamondo e chiede: “What would America fight for?”, per che cosa l’America è disposta a combattere? Gli alleati degli Stati Uniti si stanno consumando nell’interrogativo, ma la superpotenza li ignora. Due aspetti della politica obamiana, secondo la rivista britannica, hanno peggiorato di molto la solidità dell’occidente: il presidente “ha violato una legge fondamentale della deterrenza di una superpotenza: devi mantenere la parola data”. Obama non l’ha fatto in Siria, quando il regime ha varcato la linea rossa dell’utilizzo delle armi chimiche, e non l’ha fatto nemmeno con la Russia, quando questa ha annesso illegalmente la Crimea. Il secondo aspetto è che il presidente americano è stato “un amico disattento”, ha puntato su soluzioni multilaterali ma poi non ha costruito nessuna coalizione, volenterosa o no – è per questo che molti paesi dell’est europeo si sentono abbandonati, e la Russia belligerante è lì a un passo da loro.

Ieri, in conferenza stampa con la cancelliera tedesca Angela Merkel, Obama ha ribadito che l’occidente è unito, che le provocazioni russe “minacciano la sicurezza” di tutti e che se Mosca boicotta il voto ucraino del 25 maggio “ci saranno nuove sanzioni più ampie”, anche se ancora non si sa se colpiranno il settore energetico. Mentre si discute dell’efficacia delle misure restrittive – ancora ieri il New York Times era scettico sul potenziale delle sanzioni – non è ancora chiaro che strategia la Casa Bianca abbia in testa, e nella confusione tattica, vale tutto. Su The Nation, Stephen Cohen e la moglie Katrina vanden Heuvel (che di The Nation è la direttrice), esperti di Russia, hanno scritto uno degli articoli più discussi del momento, dal titolo: “Guerra fredda contro la Russia, senza dibattito”.

La coppia di The Nation scrive che l’Amministrazione ha deciso di isolare Mosca, in una nuova forma di “containment”, nel consenso generale e senza chiedere il permesso a nessuno. La dichiarazione di guerra (fredda) è arrivata il 20 aprile sulla prima pagina del New York Times in un articolo di Peter Baker: lì si diceva che Obama ha capito di non poter avere “un rapporto costruttivo con Putin” e che “ignorerà il capo del Cremlino”, insistendo piuttosto sull’“isolamento” della Russia, chiudendo i legami politici ed economici, rendendo la Federazione “uno stato pariah”. Baker sintetizza: “E’ una versione aggiornata della strategia del contenimento della Guerra fredda”. Per Cohen e sua moglie, è una posizione belligerante che non tiene conto delle differenti posizioni all’interno del Congresso e che sottovaluta il fatto che la Russia reagisce alla provocazione della Nato, la quale da due decadi cerca di allargarsi fino ad arrivare a ridosso del territorio russo, con fare intenzionalmente provocatorio (l’articolo è stato prontamente ripreso ieri da Rt, l’emittente che, con stile molto occidentale, fa da cassa di risonanza del Cremlino).

La difesa filorussa di The Nation è stata smontata su New Republic da Julia Ioffe con dettagliata veemenza: la Ioffe è nata a Mosca, a sette anni è arrivata in America, è una delle commentatrici più critiche nei confronti di Putin che ci siano in occidente – su Twitter si cinguetta: mai fare arrabbiare la Ioffe. In sintesi, ma l’articolo va letto tutto perché è divertente, la giornalista dice che non c’è nessuna Guerra fredda, né unilaterale americana né tantomeno multilaterale, che semmai il problema è proprio che non c’è consenso e non c’è un approccio coordinato con la Russia, e che nell’altalenarsi di cautela, pragmatismo, dichiarazioni, reazioni, approcci incrementali e buoni propositi, nell’Ucraina dell’est la guerra è iniziata.

Questo duello ai margini del dibattito sulla nuova Guerra fredda serve a spiegare quel che accade quando la superpotenza dell’occidente perde la sua credibilità: come ha scritto il Washington Post in un editoriale lunedì, “le mezze misure di Obama non fanno poi così paura a Putin”. La politica delle mezze misure è il motivo per cui l’occidente non sa più in nome di cosa l’America vuole o vorrà combattere. Su Forbes Mark Adomanis, che scrive di economia russa con particolare attenzione all’effetto delle sanzioni sul mercato e sulla valuta russa, ha spiegato che il “containment 2.0” è un cambio di passo inevitabile e che si va costruendo giorno per giorno, ma allo stesso tempo sottolinea che non è detto che funzioni. Il problema del paragone con l’Urss è che oggi la Russia è una potenza ben più integrata e globalizzata. E il motivo per cui l’Europa si muove con cautela, cercando da un lato di ampliare i criteri legali alla base delle sanzioni, ma allo stesso tempo dicendo, come ha fatto una fonte comunitaria al Foglio, che includere Gazprom in qualsivoglia misura economica sarebbe “come una bomba atomica”.

I segnali di un cambiamento in corso però ci sono, a cominciare proprio da quell’articolo di Baker sul New York Times che spiegava come la fase attendista di Obama sia finita. In questi giorni gli Stati Uniti hanno interrotto i negoziati sul sistema missilistico da posizionare nell’Europa dell’est rifiutando la richiesta russa di un ridimensionamento del progetto. E il segretario di stato americano, John Kerry, frustrato dall’insuccesso sul conflitto israelo-palestinese e da tempo sostenitore di un cambiamento di strategia con la Russia, ha fatto un tweet giovedì che rivela insofferenza: “Gli sforzi della Russia per distruggere/rimandare le elezioni in Ucraina e l’insistenza sul tenere le elezioni in Siria sottolineano chiaramente le priorità” di Mosca. Siamo ancora in fase mezze misure, ma un po’ più nella metà interventista.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Paola Peduzzi, 4.5.2014 

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