La democrazia si nutre solo di scontri, percepibili

come tali e alla luce del sole

 di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi 30.9.2014   

C'è un vecchio proverbio di difficile decifrazione (forse è solo una filastrocca) ma che torna a fagiolo per descrivere le scelte, i comportamenti e le reazioni della componente ex Pci del Pd. Dice: «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere». Il contadino produce entrambi. Ma, non avendo fatto la Bocconi, non conosce (o non conosceva) il nefasto termine «sinergia». E quindi non sapeva nemmeno che un prodotto aggiunto all'altro si arricchiva di sapori. Perciò li vendeva separati e li lasciava godere assieme, agli acquirenti urbani, che si suppone siano più smaliziati. Meglio lasciare all'oscuro, il contadino. Così succede anche nella componente ex Pci del Pd che, nelle varie direzioni del partito, non si alza a far battaglia, a spiegare le sue ragioni e a contrastare con la veemenza delle proprie convinzioni, l'esibita sicurezza di Renzi.

Gli antagonisti del premier, nelle direzioni del Pd, stanno infatti zitti. Al massimo farfugliano qualcosa di inconsistente come «la difesa della Ditta» o lo «smacchiamento del giaguaro» e poi se ne vanno alla chetichella e con la coda fra le gambe. Salvo riprendere la voce e l'aggressività, appena usciti dal Nazareno, sfogandosi nei microfoni delle tv o nei taccuini dei giornalisti, non per spiegarsi, ma solo per intorbidire le acque. Le uniche cose che si capiscono, di loro, sono i no. Che purtroppo non sono motivati ma, al massimo, sono resi confusi da un lessico incomprensibile e che si presta a ogni interpretazione. In questo, a dire il vero, i Pd di origine Pci, non sono diversi dall'ultima generazione democristiana, quella che si riconosceva in Aldo Moro da Maglie e nelle sue circonlocuzioni che non approdavano a nulla, o in Mino Martinazzoli da Orzinuovi con le sue sconfinate tristezze, intinte nei versi di Giacomo Leopardi che gli davano il marchio dell'intellettuale ma che, anch'esse, non portavano a nulla.

I pd di origine pci e i vetero democristiani, anche se lo negano in teoria, sono uniti, nei fatti, dal convincimento che il tempo non conti e che tutto sia rinviabile. Sono dei neolitici sopravvissuti nella stagione dell'istantaneità, nella quale i nostri concorrenti viaggiano alla velocità della luce. È di questa settimana, ad esempio, la notizia che in Cina è stato completato un canale di 1.260 chilometri per deviare le acque di un affluente dello Yangtze verso il Nord arido della Cina. Il canale ha una portata di 13 miliardi di metri cubi d'acqua all'anno. E ciò è avvenuto in pochissimo tempo mentre tutt'ora, per andare in ferrovia da Palermo a Catania ci vogliono cinque ore e dell'Alta velocità ferroviaria Napoli-Bari, dopo essere stata annunciata, in tre anni non è stato scavato nemmeno un metro.

Sono questi ambienti appisolati e rétro che adesso si svegliano indignati perché Renzi, secondo loro, si muove troppo in fretta e perché vuol risolvere problemi incancreniti da trent'anni di inazione. Indubbiamente, la novità di Renzi è l'irrequietezza (che ha anche notevoli controindicazioni: nessuno è perfetto) ma è anche la chiarezza nell'enunciare gli obiettivi e la determinazione nel volerli perseguire.

I politici della Prima e della Seconda repubblica non indicavamo mai i loro obiettivi per poter fare retromarcia, alla prima resistenza, senza far vedere che stavano pedalando al contrario. Si comportavano come i pugili svogliati che si abbracciano all'avversario. Regola, questa, che negli incontri pugilistici (e la politica non è molto diversa dal pugilato) viene sempre e severamente sanzionata dall'arbitro. E anche quando gli obiettivi sembrano essere stati indicati, c'era sempre una successiva fase di compromesso nell'ambito del quale gli interessi venivano diluiti in modo omeopatico per poter accontentare tutti. Cioè nessuno.

Ricordo che un giorno accusai un ministro economico (poi diventato anche premier) di aver prodotto una legge incomprensibile, contraddittoria, farraginosa e quindi, oltre che inutile, anche pericolosa. Il ministro allora mi disse: «Prova a prendere un tuo articolo e a sottoporlo a una decina di centri di interesse e poi a mille tra deputati e senatori, ognuno dei quali ha il diritto di togliere o di aggiungere ciò che gli riesce, e poi dimmi tu se, alla fine, firmeresti questo sgorbio di testo». L'analisi del ministro era corretta. Ma da noi, per reazione al mascellone, si è scambiata una maggioranza che decide, in una dittatura o, quanto meno, nell'anticamera di una dittatura. Da noi, quindi, chi decide non è uno che ha una visione e sceglie (supportato dai voti necessari in parlamento) in base ai suoi convincimenti, ma è solo un decisionista. Cioè un arrogante senza motivo. Uno che si impone (si lascia capire, calpestando gli altri). Come se imporsi, per un premier, o per qualsiasi dirigente, fosse un peccato e non una virtù, cioè un'assunzione di responsabilità.

Da questo punto di vista, Renzi è un'assoluta e positiva novità. Perché dice ciò che pensa e si fa capire dalla gente. Sull'art. 18, Renzi ha infatti annunciato, senza inutili e annebbianti circonlocuzioni, che lo voleva cancellare e che nessuno lo avrebbe fatto arretrare da questo convincimento. Il tema dell'art. 18, è noto, non è nuovo. La inconcludente battaglia su di esso dura da più di trent'anni. Ma, prima di Renzi, nessuno (foss'anche di destra) aveva mai posto il problema in modo così chiaro e ultimativo. Infatti, se a un leader politico (o confindustriale) scappava detto che voleva abolire l'art. 18, subito dopo se la dava a gambe, impaurito dal suo stesso coraggio. Nessuno, anche se di destra, ripeto, avrebbe inoltre osato mettere la Cgil con le spalle al muro della coerenza, dicendo, semplicemente, il vero (che, proprio perché era vero, diventava intollerabile; per la Cgil e per chi la sostiene, è ovvio). E invece Renzi ha osato dire (e non sembrava nemmeno che facesse fatica a dirlo) che «i sindacati difendono l'articolo 18 perché sono gli unici a non averlo per i loro dipendenti». Poi ha anche spiegato che «l'art. 18 difende solo alcuni dipendenti» visto che lascia scoperti dalla sua protezione più di metà degli occupati nel settore privato che è il settore dove l'art. 18 agisce.

Ma un Renzi che dice queste cose è come il bimbo che grida che il re nudo (che tutti i conformisti invece vedevano, o fingevano di vedere, vestito) è nudo sul serio e quindi spinge anche i pd ex pci, che non si sono fatti imbalsamare, a dire la verità. L'ex sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ad esempio, dice oggi che «il vero problema sono i poteri invecchiati, anchilosati. Un leader deve aprirsi un varco nella palude con una rivoluzione culturale». Chiamparino poi aggiunge: «L'art. 18 è un simbolo che ha 44 anni. Questa è una battaglia di bandierine che coinvolge solo una parte del ceto politico e sindacale». Per Chiamparino «deve essere reintegrato, anche se opera in un'azienda come meno di 15 dipendenti, solo se è stato discriminato in base a precise e identificate tipologie. Su tutto il resto va previsto un risarcimento economico deciso da una commissione arbitrale». La rivoluzione culturale di Renzi è tutta qui: guardare senza paraocchi.

Pierluigi Magnaschi

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