Sacconi cruciato ma deciso a imporsi sul Governo

"Renzi cambi il Jobs Act o Ncd esce dal governo"

 L’ufficio di Maurizio Sacconi, presidente Ncd della Commissione Lavoro del Senato, è un compendio della sua vita.  C’è una vecchia foto con Bettino Craxi che rimanda al suo passato socialista e quella a fianco di Silvio Berlusconi suo leader per una quindicina d’anni fino alla scissione di Angelino Alfano.  C’è, più in vista delle altre, la foto di Marco Biagi, il professore suo grande amico ucciso dalle Br perché voleva abolire l’articolo 18 e modernizzare il Diritto del Lavoro. Obiettivi che Sacconi ha ereditato e sono ancora il suo cruccio irrisolto. C’è poi il corredo religioso da alto prelato. Un crocifisso in stile Cimabue sopra lo scrittoio, tre icone lignee della Madonna di foggia trecentesca e una Bibbia in bella mostra che rappresentano il suo recente fervore di cristiano che ha ritrovato l’intensità della fede.

C’è, infine, il senatore medesimo che appare piuttosto crucciato e che, infatti, mi accoglie con un’osservazione lugubre: «Siamo invecchiati insieme». «E me lo dici pure!», penso io che però non posso dargli torto. È dal 1979 che ci incrociamo quando lui, ventinovenne, entrò per la prima volta alla Camera dove facevo il cronista parlamentare.  Era un deputatino socialista veneto molto legato al chiomato Gianni De Michelis e che si fece subito notare per due cose. Era un grandioso imitatore dei personaggi dell’epoca, da Craxi a De Mita a Pertini e un gran secchione appassionato di argomenti forti: bilancio dello Stato, Finanziaria, scala mobile e cose così. Qualche anno dopo, infatti, divenne sottosegretario al Tesoro e ce lo tennero sette anni di fila (1987-1994) perché ormai ci si raccapezzava solo lui. Era già deputato da quattro legislature quando arrivò il ciclone che spazzò via Psi e prima Repubblica. Sacconi saltò le tre legislature successive, senza però restare a casa. Infatti il Cav, occhio lungo, lo pregò a corte. All’inizio, ne fece il proprio consigliere economico, poi sottosegretario al Lavoro del suo secondo governo (2001-2006) e, nel Berlusconi IV, lo promosse ministro del settore (2008-2011). Dal 2006, Sacconi è tornato in Parlamento, questa volta come senatore. Da allora è lì. Sommando il prima e il dopo, fanno sette legislature che, aggiunte alle poltrone di ministro e sottosegretario, sono una gran bella carriera. Il tutto per dire che, viste le premesse, non si capisce perché mi stia davanti con il muso lungo.

«È seccato per avere dovuto dare le dimissioni da presidente dei senatori Ncd in seguito al voto su Mattarella?», chiedo. «È più profondo di così», esordisce Sacconi con l’abituale tono paziente verso i giornalisti, categoria che include tra i diversamente intelligenti. «Ho dato le dimissioni perché undici senatori Ncd avevano pubblicamente annunciato di votare Mattarella, prima ancora che il partito lo avesse deciso. Con ciò indebolendo la nostra capacità negoziale verso Renzi. Mai avuto nulla contro la persona del nuovo capo dello Stato, ma è ovvio che la successiva determinazione di votarlo è stata condizionata dall’atteggiamento di quei senatori a causa dei quali ho deciso di rimettere il mandato». «Cosa intendeva con quel “più profondo”?», chiedo. «È la seconda ragione delle mie dimissioni», replica. «L’atteggiamento tenuto con noi da Renzi ha creato una situazione nuova che non so dove porterà. Il metodo del premier, che si è accordato con la sua sinistra, può compromettere le riforme in corso, soprattutto quella del Jobs Act che più mi sta a cuore. Da non più capogruppo sarò più libero di rifiutare proposte inaccettabili e che potrebbero portare a una rottura politica tra noi e Renzi».

«Senatore, sembra che lei abbia una zeppola in bocca. Parli chiaro. Lei teme che il governo Renzi, ormai legato alla sinistra dem e a Vendola possa, con i decreti delegati sul Jobs Act, reintrodurre il vecchio articolo 18 e altri legacci per mantenere ingessata la legislazione sulle assunzioni. Ci vuole tanto a dirlo, cribbio?». «Ooo - fa lui -. Io voglio leggi che liberino la creatività italiana. Dobbiamo sbottigliare la società operando sulla Giustizia, Fisco e Lavoro. Soprattutto il lavoro. La riforma non è solo utile in sé per consentire più assunzioni nell’epoca delle incertezze ma è la prova della discontinuità dell’Italia, la cui storia è stata segnata dal più forte partito comunista dell’Occidente che espresse la propria influenza proprio nelle leggi sul lavoro. Siamo l’unico Paese in cui le assunzioni o sono a vita o non sono. E questo è un ostacolo per farne di nuove che va eliminato. Il Jobs Act, così com’è, non serve. Tanto che l’Ue prevede per il 2015 l’aumento della disoccupazione italiana. Aggiungici il timore che la legge possa essere peggiorata dalle nuove alleanze di Renzi...». «E ce n’è abbastanza per giustificare il suo cipiglio inviperito», dico io. «Esatto», conferma lui.

Uscirete dal governo se Renzi traligna?

«È quello che ci siamo detti».

Intanto vi siete riavvicinati al Cav.

«Il nodo è Matteo Salvini. La Lega di Bossi era una domanda ruspante di più liberalismo per il Nord: meno tasse, meno burocrazia, ecc. Quella di Salvini è una destra estrema, scettica verso l’Europa e verso la Nazione. È lo scetticismo universale di Salvini che non va e che, rispetto al vitalismo di Bossi, ne fa un decadente».

Contrario all’uscita dall’euro?

«La liquidità scomparirebbe all’istante. Dall’oggi al domani, niente più stipendi».

Una riunificazione Ncd-Fi?

«Riunificazione, no. Un rassemblement come in Francia con De Gaulle, tra noi che aderiamo entrambi al Ppe e con gli amici di Fdi che già conosciamo per essere stati insieme».

Che pensa di Renzi?

«È l’espressione, più giovane e vitale, del politico tradizionale. Ha meritoriamente introdotto la velocità nei procedimenti politici. Non ha però una visione che ispiri la sua azione. La mancanza di convinzioni profonde può farlo procedere a zig zag e questo mi inquieta».

Padoan, titolare dell’Economia?

«Ministro mentalmente ordinato che conosce le istituzioni sovranazionali. Dovrebbe, con più coraggio, alleviare i contribuenti subissati di tasse immobiliari dovute a comuni inefficienti che scaricano le loro incapacità sui proprietari».

Che fare?

«C’è una mia proposta. Se un comune supera l’aliquota - non il tetto massimo già esistente, ma uno più basso da fissare - è automaticamente considerato incapace e viene commissariato».

Il Cav?

«Il ceto medio in particolare gli deve molto. È stato il solo imprenditore italiano che ha affrontato a viso aperto la spaventosa anomalia italiana della possibile presa di potere comunista in un Paese occidentale. Ne saremmo usciti impoveriti».

È ancora il condottiero?

«Con affetto sincero vorrei dirgli: aiutaci a costruire una grande offerta politica liberal-popolare, sapendo che non sei candidato in prima persona ad attuarla. Fai il king maker del nuovo centrodestra».

Pensa al vagolante Angelino?

«Alfano, verso cui ho affetto e leale amicizia, è più determinato di quanto appaia. Non va giudicato nel breve ma nel medio periodo».

Carbura lento?

«Dopo anni, ha rotto con Berlusconi. Se ha avuto il coraggio di farlo con lui che era come suo padre, vuole che non lo abbia per rompere con Renzi, di cui nemmeno è parente?».

A lei cos’è rimasto del socialista che fu?

«Sono per un nuovo umanesimo politico che metta al centro l’uomo. Il motto che detesto è: fiat iustitia et pereat mundus. L’uomo prevale anche a sulle regole».

Il suo cattolicesimo i cui simboli ci scrutano dalle pareti di quest’ufficio?

«In politica sono laico e pro divorzio e aborto. Da laico difendo la vita, contro eutanasia e manipolazioni genetiche, e sono contro la parificazione del matrimonio ad altre forme di convivenza».

Più a suo agio nel Ppe che tra i socialisti Ue?

«Il Pse di oggi è imbastardito da fior di comunisti. Tuttavia anche noi nel Ppe - il partito della cancelliera Merkel - dobbiamo precisare il concetto di solidarietà europea, riequilibrando il rapporto tra nord e sud dell’Ue. Per evitare che prevalga una logica baltica a scapito del Mediterraneo».

Orfano di Craxi?

«Nostalgico».

Nostalgico di Berlusconi?

«Orfano».

di Giancarlo Perna, Libero 9.2.2015

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