Si allarga il Partito della graticola

Non c’è soltanto la tessera numero 1, D’Alema, a voler vedere Renzi rosolare. I movimenti degli europeisti (Letta e Mogherini), quelli degli industriali (gli anti Boccia), il grillismo di Cairo e la freddezza di Bolloré

di David Allegranti | 13 Luglio 2016 ore 06:18 Foglio

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Roma. La tessera numero 1 del Partito della Graticola (PdG) appartiene a un signore con i baffi che da un mese e mezzo è tornato in tv e rilascia copiose interviste: Massimo D’Alema. E se fino alle amministrative Matteo Renzi veniva visto come l’unica alternativa di governo credibile, adesso le cose sono parecchio cambiate. Vuoi perché Renzi sembra meno imbattibile di prima, vuoi perché parte dell’establishment inizia a mandare qualche segnale (vedi l’intervista di Carlo De Benedetti al Corriere della Sera dell’8 luglio scorso: “Renzi rischia di diventare il Fassino d’Italia”). Il PdG – sono i timori di Palazzo Chigi – oggi scommette su Pier Carlo Padoan e vede il presidente del Senato Pietro Grasso come risorsa naturale. Il ministro dell’Economia, che quando va in Europa chiama Renzi “il mio giovane padrone”, è fedele al presidente del Consiglio, ma a differenza di altri esiste a prescindere dalle fortune del ragazzo di Rignano sull’Arno. D’altronde, fu scelto (dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, mentre Renzi avrebbe preferito Graziano Delrio) anche perché vicino a D’Alema e a Giuliano Amato.

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Subito elezioni contro il partito della graticola? Nel Pd c’è chi dice “sì” Giova ricordare, peraltro, che il Mef è mezzo lettiano e che Palazzo Chigi con i suoi consiglieri economici ha sempre cercato di commissariare politicamente Via XX Settembre. L’ex premier Enrico Letta da mesi cerca una via di ritorno per l’Italia da Parigi, dove dirige la scuola d’affari internazionali di Sciences Po dopo essersi dimesso da deputato. Ed è proprio dall’Europa che arrivano segnali politici che a Palazzo Chigi osservano con attenzione. Per esempio, mentre il governatore della Banca centrale europea non fa mancare a Renzi il suo sostegno, è stato notato nel Palazzo l’attivismo (leggi: incontri con D’Alema e con Letta, da sommare all’amicizia con Nicola Zingaretti) di Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, i cui rapporti con Renzi sono da tempo congelati. Poi c’è il franceschiniano Dario Franceschini, che organizza cene con Piero Fassino e si prepara per il piano B qualora Renzi non dovesse reggere. Anche Walter Veltroni è in cerca di una seconda occasione (intanto riparte dalla Rai).

Ci sono dunque sommovimenti, riorganizzazioni, distinguo, qualche battuta sull’accento toscano, dal 2014 molto in voga a Roma, che adesso però inizia a fastidiare le orecchie. Cominciano pure le defezioni: un circolo di imprenditori milanesi aveva organizzato una cena di fundraising per il Pd con Maria Elena Boschi; data fissata per inizio luglio, tutto pronto e molti partecipanti confermati. Ma dopo il voto di Roma e Torino la cena è stata cancellata, o forse messa in standby. Uscendo dal selciato dei Democratici, le cose non vanno molto meglio. Nell’Ncd c’è chi vorrebbe già adesso dare l’appoggio esterno al governo (Maurizio Sacconi), cosa che potrebbe avvenire dopo il referendum. Una cosa è certa: Angelino Alfano ha capito che con il Pd non ci sono speranze di ulteriori nuove alleanze. C’è casomai un’area centrista da rimettere insieme (fra Ala, Scelta civica e soci). Fuori dai partiti, il PdG sta iniziando a mietere consensi, pardon, arrosticini. La Cgil vuole mandare a casa Renzi ed è contraria al referendum. Confindustria invece è per il sì (e ufficialmente, c’è stato pure un voto sull’argomento). “Il traguardo è a portata di mano”, ha detto il presidente Vincenzo Boccia. Ma gli industriali non sono tutti compatti, il gruppo che ruota attorno al candidato sconfitto Alberto Vacchi (cioè imprenditori dell’Emilia Romagna, del Nord-est e della Lombardia) vorrebbe una Confindustria meno schiacciata su un tema così politico come il referendum costituzionale. Ci sono poi le banche.

Nel mondo Intesa Renzi ha meno appeal (citofonare Bazoli from Brescia) e la freddezza che il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha riservato nelle ultime considerazioni alle riforme, dopo aver detto per anni che erano fondamentali, si è notata. E Mediobanca? L’amministratore delegato Alberto Nagel e Andrea Bonomi, cavaliere bianco del private equity, stanno insieme nella battaglia sul futuro del Corriere della Sera. I renziani osservano con interesse la partita, anche perché temono Urbano Cairo, patron di La7. All’inizio a Palazzo Chigi pensavano che lo spazio dato ai grillini sulle reti televisive fosse un’operazione commerciale, di mercato diciamo, poi hanno iniziato a pensare che dietro ci fosse altro. “Cairo ha messo in campo la politica”, dicono da Chigi. E per politica si intende la Consob, presieduta da Giuseppe Vegas, che Renzi vorrebbe cambiare per metterci un suo uomo, e che un mese e mezzo fa ha avviato un’ispezione negli uffici di Mediobanca dopo l’Opa lanciata su Rcs. Con Telecom ma soprattutto con Vincent Bolloré i rapporti non sono più buonissimi.

Telecom, peraltro, è uscita sconfitta dallo scontro con Enel per l’acquisto di Metroweb; la Cassa depositi e prestiti ha accettato l’offerta della società guidata da Francesco Starace, 814 milioni, lo stesso prezzo ipotizzato da Telecom, ma hanno pesato di più le maggiori garanzie per gli investimenti sulla banda larga. Da non dimenticare la magistratura, nelle sue varie forme (vedi il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo), che mal ha digerito la legge Renzi-Orlando sulla responsabilità civile e lo scontro sulle ferie da tagliare. Ora: scommettere sulla rovina di Renzi è possibile. I Cinque stelle conquistano spazi, anche in parte dell’establishment (vedi Torino, dove il banchiere Enrico Salza, ex presidente del comitato di gestione di Intesa Sanpaolo, che dopo aver sostenuto Piero Fassino, ha riservato elogi alla sindaca Chiara Appendino), ma se poi Renzi vince il referendum costituzionale, il PdG che fine fa? Finisce rottamato.

Categoria Italia

Commenti

Moreno Lupi • 4 ore fa

Billy Sanders ha criticato aspramente Hillary Clinton su questioni care agli elettori Democratici come l’accrescersi delle diseguaglianze economiche e degli interventi sociali su sanità e scuola, mettendone in evidenza i punti deboli. Ha tenute ferme le sue idee “progressiste” espresse dall’ala “sinistra” dei Democratici, ha lottato a viso aperto, ha avuto i consensi dei giovani ma poi, quando è stato chiare che non avrebbe ottenuto la “nomination”, Il senatore del Vermont ha dato il suo endorsement all’ex segretario di stato sotto lo slogan “Insieme più forti”. Già, perché, al netto delle chiacchiere, è politicante essenziale battere The Donald. Per i quaquaraqua graticolanti nostrani è invece politicamente essenziale battere, cancellare, il segretario del loro partito. Predomina l’ossessione oscena: “Prima che tu vinca, meglio Grillo”. Già, perché non essendo i quaquaraqua in condizione di rappresentare un’alternativa nell’ambito della loro area, puntano sul papa straniero, convinti che lui gli lascerà ancora spazi di gloria e prebende. Strano però, anche l’imbecillità dovrebbe avere un limite. Sembra, nel caso, che non l’avvertano. Intendiamoci, gli Usa, politicamente, per cultura e tradizioni e storia non sono l’Italia e l’endorsement di Sanders rientra a diritto nel loro “Right or wrong, my country”. Per cui il parallelo è improprio, ma però …

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Carlo 11 • 5 ore fa

Ma dove pensano di andare i graticolari. Sono il vecchio che non vuole sparire, sono la zavorra di questo paese. Renzi non molli su nulla: legge elettorale e referendum costituzionale. Meglio i 5S al governo per pochi mesi che far tornare gli zombi settantenni e le gruppettare sessantottine. Ho detto i 5S al governo per pochi mesi perche' le problematiche reali sono talmente complesse che se non cambiano a suon di vaffa fanno la fine di Di Maio in libera uscita sulla striscia di Gaza.

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