I sondaggi spaccano il Pd: Renzi da solo al 21% e il resto del partito al 12

Il segretario tentato: addio e congresso subito Guerini nega scissioni, minoranza in crisi

Laura Cesaretti - Gio, 15/12/2016 - 08:10 Giornale

Cosa accadrà domenica, all'Assemblea nazionale del Pd convocata da Matteo Renzi, non è ancora chiaro.

In ballo c'è il congresso del partito: Renzi lo vorrebbe accelerare, per ri-legittimare la propria leadership dopo il referendum e in vista delle future elezioni. La minoranza Pd non lo vuole, perché non ha candidati presentabili e ha perso gran parte della sua base elettorale, dunque rischia di perderlo rovinosamente. Nel mezzo, il corpaccione del partito che tentenna e si divide. Ma c'è un problema tecnico, dovuto allo statuto del Pd e alle sue astruse regole: per ottenere le assise in tempi ravvicinati, in modo che si concludano a marzo con il bagno di folla delle primarie, Renzi dovrebbe dimettersi da segretario, e farlo già domenica, affidando il partito ad una reggenza che farebbe capo al presidente Matteo Orfini.

E il leader Pd non ha ancora deciso se questa sia la mossa giusta. O almeno così lascia trapelare, seminando il panico nelle file dei democrat. Lui, per ora, se ne sta a Pontassieve con la moglie e i figli da accompagnare a scuola e a calcio («Mezz'ora di coda in macchina sulla circonvallazione») e respinge gli assalti: «Se farò un blitz domenica per anticipare il congresso? Per ora mi limito a un blitz alla Coop per fare la spesa».

Sa bene che la minoranza Pd, pur di non doversi contare tra gli iscritti, è pronta a fare le barricate: vengono minacciate gabole burocratiche e addirittura ricorsi in tribunale per fermare l'ex premier. E si capisce perché: ieri un sondaggio commissionato da Porta a Porta rivelava che Renzi, da solo, vale praticamente il doppio del Pd. Un «partito renziano», secondo la rilevazione, prenderebbe dal nulla il 21%, mentre il Pd precipiterebbe al 12%: la somma dà quel 33% che in molti attribuiscono all'attuale Pd renziano. Il vicesegretario Lorenzo Guerini smentisce un'intenzione scissionista: «Non ci sarà un partito di Renzi, anzi: penso che lui si ricandiderà al prossimo congresso». E il leader sa che, da questo punto di vista, il momento è propizio: paradossalmente, la vittoria del No e le clamorose dimissioni da Palazzo Chigi hanno creato un'ondata di mobilitazione, al Nazareno affluiscono richieste di iscrizione di simpatizzanti che tifano per l'ex premier, il rigetto verso i «traditori» Bersani e D'Alema, che la notte del referendum festeggiavano gongolanti la sconfitta del proprio partito, è ai massimi. È, insomma, il momento giusto per capitalizzare il consenso e regolare i conti con chi ha passato gli ultimi due anni a remargli contro: farsi rieleggere segretario a larga maggioranza e andare alla sfida per il voto anticipato. «O si vota a giugno o si vota a fine legislatura, febbraio 2018: non spingo per una soluzione preordinata», dice lui. Ma i suoi hanno una data precisa in testa, il 5 giugno 2017. Andare oltre significherebbe scivolare inevitabilmente al 2018, regalando ai Cinque Stelle mesi di can can sui «vitalizi» parlamentari (che peraltro non esistono più: oggi sono normali contributi pensionistici e i grillini sono i primi ad aver bisogno di maturarli). Una parte del Pd propone di rinviare il congresso al dopo elezioni, celebrando solo le primarie per la premiership, ma secondo i renziani sarebbe una scelta troppo rischiosa: oggi la situazione è favorevole, domani chissà. Domenica il rebus verrà sciolto, in un senso o nell'altro, e Matteo Renzi annuncerà la sua decisione. Nel Pd si attende con ansia.

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