Giulio Tremonti: "Ci siamo sottomessi da soli all'Europa.

Ecco la mia riforma della Costituzione per riprenderci la dignità"

Pietro Senaldi 1.3.2017 Libero Intervista Tremonti

«Nel 1948 l’Italia era una nazione sconfitta e tuttavia, pur sconfitta, teneva alta la testa nel consesso delle nazioni, chiedendo di entrarci a condizioni di parità. Alla sinistra c’è voluto mezzo secolo ma alla fine ha trovato il modo di introdurre dentro ai nostri confini il cavallo di Troia della sottomissione all’Europa. Con una specifica: il cavallo non l’hanno fatto astutamente entrare da fuori gli europei ma l’ha costruito proprio la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001 introducendo, non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitari non solo i trattati ma anche i regolamenti e le direttive europee».

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Professore, la sua proposta di modifica della Costituzione è un manifesto, una bandiera o qualcosa che può rivelarsi concreto?

«Facciamo un esempio sulle banche e sul risparmio, un fronte sul quale la sovranità italiana, anche attraverso la norma del bail-in, viene cancellata con la normativa europea manovrata nella migliore delle ipotesi da misteriosi algoritmi sui requisiti di capitale, nella peggiore, e più probabile, da interessi a comprarci e spiazzarci……. Alla Corte di Karlsruhe il risparmiatore tedesco avrebbe potuto così far valere i suoi diritti contro la norma che chiama i correntisti a rispondere delle perdite degli istituti, anche se di fatto comunque non ne avrebbe avuto bisogno, visto che comunque il problema i tedeschi l’hanno risolto a priori escludendo, dal bail-in l’enorme e critica area delle loro banche regionali».

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E poi ci fu la via delle regole?

«Questo è un percorso ancora più affascinante dal punto di vista politico. Un dato di partenza che ci aiuta a capire: da sempre le “regole” sono lo strumento con cui l’autorità esercita il potere. Ne sono il marker più sicuro. Il marker di oggi dice: Gazzetta Ufficiale Europea 2015, lunghezza 151 chilometri lineari, altezza 30092 pagine di regole».

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Allora lei la pensa come il futuro ambasciatore di Trump presso la Ue, Ted Malloch, il quale ha paragonato l’Unione Europea all'Unione Sovietica?

«L’architettura istituzionale ha avuto al principio un disegno hegeliano. Ma poi è venuto il resto, anche dal lato della sinistra post-comunista, che ha spostato i suoi “penati” dai templi di Mosca a Bruxelles, il nido dove ha posato il suo uovo e dove si è ambientata benissimo. Naturalmente poi la stessa sinistra post-comunista è passata anche alla venerazione della finanza ma questo è un altro capitolo».

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Gli Stati però hanno subìto l’Europa sovietica: la colpa non è prima di tutto loro?

«In questi anni c’è stata dappertutto in Europa una progressiva, passiva, fatalistica ma non necessariamente convinta accettazione. È evidente che è un processo di standardizzazione che ha pesato di più su ciò che era piccolo e debole e meno su ciò che era più grosso e più forte».

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Mi sta dicendo che la Germania, leggi alla mano, è meno europeista di noi?

«Dal Dopoguerra fino all’unificazione, per arrivare a Maastricht, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca fu scritta riflettendo la più recente e tragica storia di quel Paese. Con l’unificazione e con Maastricht è stata rimodulata introducendo i principi e i criteri che ora sono contenuti nel paragrafo 23 che sancisce il criterio di compatibilità dell’ordinamento europeo con i principi di democrazia e sovranità contenuti nel corpo della Costituzione tedesca. Berlino non importa in automatico i materiali giuridici europei ma li filtra attraverso il criterio di compatibilità con i propri principi interni. Tra l’altro, prevedendo procedure di controllo analoghe e parallele a quelle previste per le modifiche della Costituzione. L’Italia invece ha fatto l’opposto. Non solo ha preso atto della nuova realtà e della nuova dinamica europea - l’Europa stava uscendo dalla iniziale dimensione economica per assumere una nuova dimensione politica - ma ha assunto rispetto a tutto questo una posizione passiva, ha rimosso il vecchio criterio della condizione di sovranità e di parità e ha introdotto un criterio, per così dire, di senso unico da fuori».

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Ma l’Europa può avere futuro se ritornano gli Stati nazione?

«Il Trattato di Roma, un trattato tra Stati sovrani e che restavano sovrani, si basava di fatto sulla formula della “confederazione”. E questo, ora come allora, è il futuro dell’Europa. L’idea di allineare la Costituzione italiana a quella tedesca è la base necessaria per entrare in questa logica».

Altrimenti?

«Le ipotesi in alternativa sono tante. Fra queste anche la dissoluzione dell’Unione Europea, il “viene giù tutto”, come si dice. Del resto, la parola unione non è tra le più fortunate nella storia visto com’è andata a finire altrove».

Cos’è più minaccioso per la sopravvivenza della Ue, la crisi economica o quella politica?

«Quello che è certo oggi è che si è attivata una cascata di fenomeni tra di loro diversi. La dissoluzione può essere causata da singoli Stati nella dialettica con la Ue, e quindi seguendo una dinamica dalla periferia verso il centro. Ma può anche essere che all’opposto sia il centro che taglia la fune alla quale sono aggrappate alcune scialuppe».

L’origine del collasso sarà economica o politica?

«Nel catalogo dei fenomeni possono aversene di politici, elettorali, o economici. Possono esserci scelte attive unilaterali di uno Stato o derive passive, come può essere nel caso dell’incapacità dei governi di guidare i processi economici, oppure, e questo può riguardare più da vicino l’Italia, la semplice incapacità di governare la realtà. L’uscita di un Paese può essere voluta ma anche fatta accadere o semplicemente accettata attivamente da fuori. Se non come tragedia (speriamo) la storia può ripetersi, spostandosi dalla Germania anni Trenta all’Italia di oggi: uno scenario tipo Weimar può diventare la prospettiva del nostro Paese».

Cosa la preoccupa di più attualmente per il nostro Paese?

«Se manca, o se mancherà, la capacità di governo del Paese, il tracollo sarà inevitabile. Mi preoccupa, ed è sintomatico, lo scambio che sembra in atto tra la data in cui si faranno le elezioni e la data in cui si farà il bilancio pubblico. C’è chi, dopo aver governato come una cicala per tre lunghissimi anni con tutti gli astri in positivo (dai tassi, al prezzo del petrolio), oggi pianifica elezioni anticipate per non pagare il conto, girando l’onere di bilancio a chi viene dopo. Ma rimandare porterà a un grado maggiore d’ingovernabilità e le tensioni finanziarie saranno ancora più decisive. E quello della tensione finanziaria è l’habitat naturale per la crescita del populismo, che non sarà causato dai “sovranisti” ma sarà responsabilità di chi fa ruotare le regole in modo irresponsabile. E dico questo a futura memoria. Anche a prescindere dall’Europa abbiamo da finanziare e rifinanziare il terzo debito pubblico del mondo senza avere la terza economia del mondo».

 

Ma andare a votare subito non ci darebbe almeno un governo forte?

«No, se la scelta politica è quella di anticipare le elezioni rispetto alla legge di bilancio per non alienarsi il consenso degli elettori. Anche perché le elezioni si terrebbero con una legge elettorale che non fa vincere nessuno e quindi dopo il voto nessuno sarebbe in grado di fare la legge di bilancio. Chi provocherà questo, pur nell’ossequio formale delle leggi, si caricherà verso gli italiani di una gravissima responsabilità storica. Perché è a quel punto che l’Europa potrebbe decidere di mollarci».

di Pietro Senaldi

@PSenaldi

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