Il disastro dei sequestri di beni

I beni sottratti dallo Stato alla mafia marciscono tra gli scandali. Che fine faranno quelli tolti ai corrotti?

di Riccardo Lo Verso 16 Ottobre 2017 alle 14:27 da www.ilfoglio.it

Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo: è accusata di aver gestito in modo spregiudicato i patrimoni sottratti alla mafia favorendo i propri famigli

Silvana Saguto, la potente presidente delle misure di prevenzione di Palermo, faceva il magistrato e curava gli affari di famiglia. Così sostiene l’accusa. Chi si piazzava sotto la sua ala protettiva otteneva prebende e consulenze, a condizione che ricambiasse i favori: dal trolley con dentro soldi in contanti agli incarichi per il marito ingegnere nelle amministrazioni giudiziarie, dalla corsia preferenziale per la laurea del figlio alla cassette di frutta e verdura per la dispensa della presidente, oggi sospesa dal servizio. Da tutto questo avrà tempo e modo di difendersi

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L’inchiesta che due anni fa ha travolto la presidente, assieme ad altri suoi colleghi e professionisti, sembrava l’anno zero delle misure di prevenzione.

Il punto e a capo in un settore chiacchieratissimo, quello per la gestione dei beni sequestrati e confiscati ai mafiosi o agli imprenditori sospettati di mafiosità. E invece le indagini non avevano svelato l’insidia più grave. Tale è, se si guardano i fatti dalla prospettiva dello Stato, la possibilità che qualcuno a cui fu sequestrato il patrimonio riesca a rientrarne in possesso. Circostanza che sarebbe avvenuta, ad esempio, grazie alla complicità di Luigi Miserendino, commercialista palermitano e amministratore giudiziario dei beni confiscati all’imprenditore Giuseppe Ferdico. Nei giorni scorsi è finito ai domiciliari e poi è stato scarcerato solo perché le dimissioni dagli incarichi ha fatto venire meno le esigenze cautelari.

Era stata talmente vertiginosa la scalata commerciale di Ferdico da meritarsi l’appellativo di “re dei detersivi”. In un ventennio ha aperto una dozzina di punti vendita e due centri commerciali. I soldi, però, così sostiene l’accusa, non erano tutti suoi. C’erano pure quelli di qualche mafioso. Un’accusa che ha retto fino alla confisca di primo grado, malgrado Ferdico fosse uscito indenne dal processo penale per concorso esterno in associazione mafiosa.

 

E’ il doppio binario della giustizia: chi non è mafioso dal punto di vista penale non è detto che sia pulito. C’è sempre la mafiosità, il sospetto di avere strizzato l’occhio ai boss. L’onere della prova si ribalta. Spetta a colui che viene proposto per le misure di prevenzione dimostrare che l’accusa si stia sbagliando. Missione impossibile, specie quando la contabilità di un’azienda è zeppa di buchi neri.

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L'agenzia per i beni confiscati è una grande incompiuta. Molti beni assegnati a enti che non hanno le risorse per strapparli all'incuria

Miserendino si era guadagnato la fama di amministratore integerrimo, sempre in prima linea al fianco dei giovani delle cooperative di Libera, una holding per la promozione della legalità e l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie che coordina oltre 1.500 gruppi, gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato milionario. Con l’appoggio dell’associazione di don Luigi Ciotti Miserendino ha “messo in sicurezza” la Calcestruzzi ericina. Il loro cemento della legalità è diventato un modello da illustrare durante affollati convegni. E così Miserendino, una volta che l’azienda è passata in confisca, da ex amministratore giudiziario ha trovato posto nel consiglio di amministrazione della nuova creatura, la Calcestruzzi Ericina Libera Cooperativa. Mai una sbavatura né nella gestione della Calcestruzzi e neppure degli altri patrimoni, e non sono pochi, affidati al commercialista dai Tribunali di Palermo e soprattutto Trapani, ma anche dalla Procura trapanese.

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Secondo i pm Roberto Tartaglia e Annamaria Picozzi, Miserendino sapeva che Ferdico continuava a fare il padrone nel centro commerciale che gli era stato confiscato. Era uscito dalla porta per rientrare dalla finestra, servendosi di due teste di legno, incluso un bancarottiere, a cui Miserendino aveva affittato il ramo di azienda dei centri commerciali. Il commercialista, stando alle intercettazioni, preferiva non avere rogne e si sarebbe girato dall’altra parte di fronte alle nefandezze commesse da chi gli stava attorno. Lo avrebbe fatto in spregio del ruolo che ricopriva, infischiandosene delle direttive della stessa dottoressa Saguto che gli aveva ricordato per iscritto l’obbligo di allontanare Ferdico dall’azienda. Riteneva forse che nessuno lo avrebbe controllato, ed invece si sarebbe imbattuto nei finanzieri della Polizia tributaria, stimolati da un manager zelante e stanco di subire pressioni… che fine fanno i beni sotto sequestro?

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La legislazione antimafia è stata mostrata come un simbolo dell’eccellenza tutta italiana. L’arma in più che gli altri paesi invidiano alla lotta di casa nostra a Cosa nostra. L’esigenza di combattere la criminalità organizzata colpendo i patrimoni illeciti ha creato un’enorme macchina economica. Quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che valgono 30 miliardi di euro e che generano incarichi, polemiche e di recente anche inchieste.

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E’ soprattutto l’estensione di sequestri e confische che ha inasprito i toni. La maggioranza parlamentare che lo ha approvato si gonfia il petto per avere turbato il sonno dei corrotti. Ma c’è un fronte del no che si ingrossa ogni giorno di più. Include Confindustria, l’unione delle Camere penali, giuristi e costituzionalisti, forze politiche e singoli magistrati che denunciano il dilagare della cultura del sospetto al posto delle regole del diritto, la volontà di parlare alla pancia del paese dando voce al giustizialismo. Persino il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha sollevato più di una perplessità sull’opportunità di ampliare un sistema eccezionale di prevenzione per reati che hanno poco a che vedere con la mafia. Dall’altra parte della barricata c’è la presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, secondo cui, il codice è “un regalo per il paese”. Il dibattito è aperto.

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Il nuovo Codice antimafia estende sequestri e confische anche a chi si associa per commettere reati contro la Pubblica amministrazione

Nella logica emergenziale che guida troppo spesso il Paese il codice antimafia ha recepito anche la cosiddetta norma Saguto. I fatti di Palermo hanno suggerito la necessità di una pezza immediata per evitare che le misure di prevenzione continuassero ad essere un business per alcuni amministratori giudiziari, professionisti e consulenti. Lo spaccato emerso dalle indagini dei finanzieri è sconfortante. L’interesse pubblico sarebbe stato piegato alle esigenze private degli addetti ai lavori, toghe incluse, sulla base di una logica clientelare e spartitoria. In molti, a distanza di mesi, si chiedono perché mai ai protagonisti dell’indagine sia stato riservato un trattamento sanzionatorio fin troppo morbido.

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Le aziende in amministrazione spesso falliscono. E non è sempre e solo colpa dell’incapacità, seppure molte volte riscontrata, degli amministratori. I costi della legalità sono insostenibili. Subentrare in un’azienda significa trovarsi di fronte al marasma contabile, ad una forza lavoro in nero, al mancato rispetto delle elementari norme di sicurezza, alle pressioni dei mafiosi che non hanno alcuna intenzione di cedere il passo. I sindacati si risvegliano per dare voce a legittime rivendicazioni, colpevolmente taciute. Non si parla solo di imprese. Alzarsi al mattino e andare a riscuotere l’affitto di una casa o l’incasso nel negozio in un quartiere difficile può non essere una passeggiata di salute. Senza contare l’impossibilità di accedere al credito.

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Perché la faccenda delle misure di prevenzione va affrontata non solo dalla prospettiva dello Stato, ma anche di chi subisce il sequestro. I proprietari dei beni hanno il diritto di avere una risposta celere. Bisogna evitare, ed è una priorità, che assistano inermi al depauperamento dei patrimoni.

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L'esigenza di combattere la criminalità organizzata colpendo i patrimoni illeciti ha creato un'enorme macchina economica

Il codice prevede anche il rafforzamento dell’agenzia per i beni confiscati che finora ha fatto un onesto lavoro. Nulla di più. Non per demeriti, per carità, ma una manciata di addetti ai lavori non può certo contrastare con la mole di beni passati al patrimonio dello Stato. L’agenzia di oggi è una grande incompiuta. Senza contare che molti beni vengono assegnati a comuni e associazione che, però, non hanno le risorse necessarie per strapparli all’incuria e all’abbandono. I patrimoni non sono più una risorsa, ma un fardello. La legislazione antimafia, quella che tutti invidiano all’Italia, è piena di falle. Non bastano le parate dell’antimafia, la convegnistica di maniera, l’associazionismo che si fa impresa, le cerimonie di inaugurazione con telecamere al seguito a distogliere l’attenzione dai guasti di un sistema che non ha funzionato come avrebbe dovuto. Altrimenti i casi Saguto e Miserendino diventerebbero elementi di distrazione di massa. Tagliare i rami secchi serve a poco se persistono le inefficienze di sempre.

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