Basta ipocrisie e ideologie, mandare i soldati all’estero è sacrosanto

Non solo Niger, la presenza italiana con le missioni italiane all’estero diventa sempre più necessaria. Ad avere una politica. E a contare fuori dagli ombrelli protettivi delle alleanze

di Fulvio Scaglione18 Gennaio 2018 - 07:30 www.linkiesta.it

Il Parlamento e il Paese che nel 2007, per un voto, immolarono il Governo Prodi sull’altare della missione militare in Afghanistan, non potevano non dividersi sulla seduta straordinaria con cui la Camera ha approvato il cosiddetto “decreto missioni”, ovvero il piano del Governo per l’impiego dei militari in operazioni all’estero. Tanto più che il piano per il 2018 prevede, oltre a un aumento dei costi (da 1,4 miliardi spesi nel 2017 a 1,5 previsti fino a settembre), significative novità dal punto di vista strategico: ridimensionate le missioni in Iraq e in Afghanistan e rafforzata quella in Libia, saranno varati due nuovi interventi, uno in Tunisia e uno in Niger.

Il più discusso è quello in Niger. È un’iniziativa tutta italiana, fuori da qualunque mandato Onu o Nato, porterà i nostri soldati in un’area di cui la stragrande maggioranza degli italiani non sa un tubo e sulla quale quindi si può dire tutto e il contrario di tutto, ci vedrà impegnati (con un contingente che potrà arrivare a 470 uomini) laddove sono già presenti, e con forze ben più massicce, Usa, Francia e Germania. Il che ha scatenato una serie di critiche e obiezioni in qualche caso fondate ma con una caratteristica comune: confondere la realtà con i desideri e le speranze con i progetti. Certo, piacerebbe a tutti non dover ricorrere ai soldati e alle loro armi. Vorremmo con tutto il cuore che il Niger non fosse uno dei Paesi più poveri al mondo. Saremmo più felici se non fosse infestato, come i vicini Mali, Ciad e Libia, da trafficanti di uomini e jihadisti. E ci farebbe un gran piacere se il Niger non avesse uno dei soliti regimi di dubbia reputazione, che peraltro sono la gran maggioranza dei 193 Paesi rappresentati all’Onu.

Che cosa non daremmo, quindi, per mettere fiori nei nostri cannoni, trasformare le spade in vomeri, avere a che fare solo con galantuomini e veder fiorire ovunque pace e soddisfazione. Ma mentre lavoriamo per questo, che cosa vogliamo fare? Ci chiudiamo a casetta nostra e speriamo che passi la nottata?

Dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto

Papa Francesco

Scatta in questi casi in molti italiani una ripugnanza nei confronti dello strumento militare che è automatica. E pure un po’ cieca. Nell’agosto del 2014, sull’aereo che lo riportava a Roma dopo il viaggio in Corea del Sud, papa Francesco disse a proposito dell’avanzata dell’Isis in Iraq: “Dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto”. Ed è abbastanza scontato ritenere che il verbo “fermare” non sottintendesse il lancio di confetti o la consegna di mazzi di fiori. Tattica che difficilmente sarebbe stata apprezzata dai cristiani di Mosul o dagli yazidi loro compagni di martirio.

Anche questo paragone, però, è fuorviante. Perché i 6.698 soldati italiani che nel 2017 sono stati impegnati in 35 missioni all’estero in 24 Paesi non hanno fermato l’Isis, né altri eserciti di quella portata. Nella quasi totalità dei casi i nostri, che pure hanno un’ottima preparazione al combattimento, hanno svolto le attività definite dalla sigla CIMIC che sta per “Civil Military Co-operation”, ovvero quella cooperazione civile-militare che il ministero della Difesa così definisce: “… contribuire al raggiungimento degli obiettivi civili in tutti i campi (giustizia, cultura, economia, sociale, sicurezza, ecc.) al fine di favorire la ricostruzione del tessuto socio-economico dell’area di crisi”. Chi li ha frequentati all’estero (e chi scrive lo ha fatto in Afghanistan, Libano, Iraq, Kurdistan, Kosovo e altrove) sa che proprio questo i soldati italiani fanno, o almeno provano a fare, in genere con un forte apprezzamento da parte delle popolazioni locali. E il ricordo dei caduti di Nassiriya, la base dov’ero stato con il fotografo Nino Leto fino a tre giorni prima dell’attentato kamikaze del 2003, è il più vivo e drammatico, ma solo uno dei tanti, in quel senso.

I nostri reparti hanno maturato nel CIMIC una competenza che è universalmente riconosciuta ed è anzi giudicata all’avanguardia. E se proprio non vogliamo pensare (come io comunque faccio) che con più italiani e meno americani in Afghanistan le cose oggi andrebbero meglio, almeno non umiliamo la nostra intelligenza raccontando che i soldati vanno in Niger per fomentare altre guerre o per farsi prendere a calcioni da islamisti e contrabbandieri.

E poi, naturalmente, c’è il vezzo italico più diffuso: il benaltrismo. Altro che 470 soldati e un po’ di blindati, ci vorrebbe ben altro in quei deserti. Figuriamoci che cosa possiamo fare con questa missione, ci vorrebbe ben altro per non finire a fare da spalla agli interessi della Francia. E poi che sono queste missioni militari, ci vorrebbe ben altro per avere un ruolo importante nel mondo. E via dicendo, dicendo, dicendo. Com’è successo, peraltro, solo qualche mese fa, ai tempi in cui il Governo italiano ha stipulato accordi di collaborazione con quello della Libia e si è ritrovato contro tutte le organizzazioni umanitarie e parte importante dell’opinione pubblica. Anche allora ci voleva ben altro, perché i libici sono dei tagliole (peccato che siano il governo riconosciuto dall’Onu e dal mondo), perché i flussi migratori comunque non si sarebbero arrestati, perché i campi profughi sono dei campi di concentramento. Oggi, in una situazione tutt’altro che ideale ma con migliaia di morti in meno nel Mediterraneo e l’Unhcr e altre grandi agenzie che possono entrare nei campi profughi in Libia, diremmo le stesse cose?

Siamo quasi tutti indifferenti alla lezione paradossale che arriva da questa seduta straordinaria della Camera. E cioè, che tocchi al Governo Gentiloni, nato provvisorio e presto scaduto, e forse proprio per questo più libero, prendere finalmente qualche decisione di politica estera. Perché il punto è proprio qua: l’Italia deve avere o no una politica estera?

Se la risposta è no, non c’è problema: ci piazziamo in salotto a guardarci l’ombelico, aspettando che il mondo diventi un paradiso senza di noi. Ma se la risposta è sì, che cos’altro dovremmo fare se non cercare di sederci al tavolo dei grandi? E dove dovremmo essere se non laddove i grandi giocano le loro carte?

 La missione in Niger è la logica prosecuzione dell’impegno in Libia, ovvero del tentativo di risalire la corrente del più imponente flusso migratorio, quello che dal Sahel porta centinaia di migliaia di disperati verso l’Europa.

 Esserci non è importante, è inevitabile. Come lo era ieri essere in Libano o nell’ex Jugoslavia e domani in Tunisia. Consci dei nostri limiti: quando eravamo la sesta potenza economica mondiale Bettino Craxi poteva dire di no a Ronald Reagan a Sigonella, oggi voliamo più bassi. Ma consci anche dei nostri doveri: non disertare ma provare a essere una presenza ragionevole e umana nell'onda neo-coloniale e neo-imperialista dominante, e non rinunciare alla nostra dignità di Paese fondamentale almeno in ambito mediterraneo.

Se poi fossimo anche un minimo lungimiranti, diremmo che in Niger bisogna esserci anche per altre ragioni. Il terremoto che sta spostando il baricentro del pianeta non è il terrorismo islamista, come vogliono farci credere, ma la demografia. I cinque Paesi al mondo con l’età media più bassa sono tutti africani e li guida proprio il Niger, dove l’età media è poco sopra i 15 anni. Gli altri sono l’Uganda e il Mali (che confina con il Niger), attestati sui 15,5 anni, e poi il Malawi e lo Zambia (16 anni). Mentre nella Ue l’età media viaggia ormai verso i 43 anni. Non si tratta solo di intervenire sui flussi migratori ma di capire dove va il mondo.

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