Salvini fa il rottamatore, i ”vecchi” della Lega adesso sono spariti

I volti che un tempo identificavano il Carroccio sono in secondo piano se non addirittura spariti, come il Nord dal simbolo elettorale. Maroni ha fatto un passo di lato, Bossi è sempre in bilico, Fava è sotto tiro. E Tosi e Gentilini sono fuori. Il 4 marzo sarà un bivio

di Alessandro Franzi 18 Gennaio 2018 - 07:40 www.linkiesta.it

Nell'anno di grazia 2018, quasi tutti i volti che un tempo identificavano la Lega Nord sono scomparsi. O restano dietro le quinte. Mai come in queste settimane in cui si stanno compilando alleanze, programmi e candidature il partito di via Bellerio appare come il partito di Matteo Salvini. Lega e basta, senza più Nord nel simbolo. Il passo di lato di Roberto Maroni, che ha deciso di non ricandidarsi alla presidenza della Regione Lombardia è sicuramente il cambio più inatteso e clamoroso. Motivi personali, ha detto l'ex leader. Vuole fare il premier, insinuano i retroscena. Quello che davvero vorrà fare in futuro, se lo vorrà, non è però dato a sapere con certezza. Solo una cosa appare chiara a chi lo ha conosciuto bene: Maroni non vuole che finisca a pugni con Salvini, il giovane erede ripudiato, nel cui approccio alla politica la vecchia guardia fatica a riconoscersi. Meglio vedere che cosa riuscirà a fare il 4 marzo, e soprattutto dopo.

Il partito è tutto concentrato su Salvini. Guarda all'Italia intera. Ha messo in secondo piano le battaglie storiche dell'autonomismo per privilegiare due o tre temi: meno immigrati, meno tasse, meno Europa. E soprattutto sta mandando avanti un esercito di nuovi aspiranti parlamentari (e, perché no, ministri) che rispondono solo al capo. Maroni si è messo da parte, per un po'. Il fondatore Umberto Bossi potrebbe invece spuntare in extremis una nuova candidatura per Roma, ma di fatto non è più coinvolto da anni nella gestione della Lega. Di suoi uomini, non ce ne sono nelle gerarchie del partito. Il candidato che sfidò Salvini alle primarie del maggio scorso, Gianni Fava, lo è diventato per necessità: ma anche Fava rischia di rimanere fuori da tutto, la sua candidatura il 4 marzo non è stata autorizzata. Né per il Parlamento né per la Regione Lombardia, dove da cinque anni è assessore all'Agricoltura della Giunta Maroni.

I leghisti 'classici' non si vedono più in scena. Ogni tanto spunta l'ex ministro Francesco Speroni, uno della prima ora che da tempo ha però rinunciato a ogni ambizione. Suo genero, Marco Reguzzoni, che dieci anni fa sbarcava a Roma e diventava capogruppo bossiano alla Camera, ha addirittura fondato un movimento alternativo, 'Grande Nord', che raccoglie molti leghisti fuoriusciti. E poi c'è il Veneto: l'ex sindaco-sceriffo di Treviso, Giancarlo Gentilini, è finito di fatto fuori dalla Lega. "Siamo stati tutti epurati allo stesso modo, io, Gentilini, Maroni", sostiene l'ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, espulso da Salvini quando era segretario della Liga Veneta e stava coltivando una sua leadership alternativa. In questo quadro, il solo Luca Zaia, governatore al secondo mandato, è la figura che resta saldamente in sella. Ma Zaia è lontano dal potere leghista, che è a Milano. E a Roma, ormai.

Attorno a Salvini, restano solo due nomi di peso dell'epoca ormai archiviata. Resiste Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che è a disposizione del segretario per la sua abilità nell'utilizzo dei regolamenti parlamentari e nello sfruttare i meccanismi delle leggi elettorali. Ma soprattutto c'è Giancarlo Giorgetti, vice-segretario federale che è il vero ponte fra Salvini, Arcore, i palazzi romani e i poteri economici.

Giorgetti c'era con Bossi dal 1996, prima della malattia del fondatore (2004) era considerato addirittura il suo erede. C'è stato poi con Maroni. Ed è rimasto con Salvini, uomo delle trattative, dei suggerimenti che contano e anche carta privilegiata per una casella di governo (vicepremier nel caso di una Lega seconda dietro Forza Italia?)

Tutto il resto, in Lega, ha un solo nome: Salvini. Le liste le fanno lui e i suoi fedelissimi, molti della cerchia milanese sono in partenza per Roma. In aggiunta, ci saranno per la prima volta diversi indipendenti candidati sotto le insegne dell'Alberto da Giussano. Il segretario leghista, mentre procedeva con la sua rottamazione di fatto della vecchia guardia, ha arruolato anche dei professori e dei consulenti esterni al partito. Come Armando Siri, il teorico della flat tax. O come Claudio Borghi, il teorico della critica alla moneta unica europea. Chi c'era prima aspetta di vedere se la nuova Lega avrà davvero gambe per correre. Altrimenti cercherà di prendersi una rivincita. Magari ispirandosi a quello che è successo con un altro Matteo, un po' più a sinistra.

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