Il reddito di cittadinanza

spiegato a Renzi (e a chi ancora parla di soldi ai fannulloni)

22.10.2018 Giovanni Perazzoli www,linkiesta.it

Il senatore Pd continua a non capire che la misura dei Cinque Stelle è welfare europeo: dalla Francia alla Germania ogni Paese europeo che funziona ha un sussidio sul modello del reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle. Migliorarlo e disboscare il resto sarebbe la prima cosa da fare

Può anche essere condivisibile il discorso europeista e progressista di Renzi, ma sul welfare sbaglia: è del tutto fuori dall’Europa, del tutto fuori dal “modello sociale europeo” e non potrà mai incontrare il consenso delle giovani generazioni. Non è poco. Un reddito minimo condizionato sarebbe stato il complemento del job act, come doveva esserlo per la riforma di Marco Biagi (secondo l’intenzione di Biagi). Era lo stesso Marco Biagi a scrivere nel 2000 delle pressanti richieste da parte della Commissione europea per una riforma del lavoro che includesse degli efficienti centri per l’impiego e un minimo vitale, un reddito minimo condizionato o, come lo si voglia chiamare: “Altri interventi, puntualmente promessi ogni anno, quali la riforma degli incentivi per l’occupazione e quella degli ammortizzatori sociali, sono rinviati ancora una volta al 2001 - scriveva Biagi stesso su “Guida al Lavoro” , il 26 settembre 2000 - Con franchezza la Commissione ci sconsiglia di attendere oltre”.

Il riformismo e il welfare europeo sono evidentemente la stessa cosa. Renzi su questo punto sbaglia completamente i conti, insiste in un vero e inspiegabile autogol. Pare non rendersi conto che soprattutto i giovani sanno perfettamente oggi come funziona il welfare in Europa, e non possono non leggere le posizioni di Renzi come vecchie, antiquate, fuori dalla realtà del lavoro flessibile, e della flexsecurity europea. Nel 2000 eravamo già in ritardo, per la cattiva Europa. L’errore più grande fatto dalla sinistra in passato (e nel presente) è stato quello di lasciar marcire la questione della riforma del welfare. Renzi sembra non rendersi conto del fatto che di una riforma del welfare si discute in Italia da decenni, addirittura il giuslavorista D’Antona ebbe, tra i deliranti capi d’accusa riportati dal volantino di rivendicazione del suo assassinio da parte delle Br, il fatto di stare lavorando a uno schema di reddito minimo garantito. La riforma del welfare è (appunto, ambiguamente) nell’agenda del centro sinistra da ben prima che la scoprisse il M5s: Romano Prodi istituì una commissione per riformare il welfare nel senso europeo, la Commissione Onofri, che non ebbe modo di arrivare a una riforma. Ma non solo: Renzi sembra addirittura dimenticare il suo stesso Rei! Qualsiasi paese civile europeo ha una rete efficiente di centri per l’impiego e una forma di reddito minimo condizionato e illimitato. Non solo non è vero che il Fmi critichi l’introduzione in Italia di un reddito minino condizionato, ma al contrario la raccomanda, come la raccomandava l’Europa, anche prima del 2000, quando era ancora Cee, nel 1992. Il reddito minimo condizionato fu persino proposto alla Grecia durante le tormentate trattative per il salvataggio.

La critica al M5s ci sta. Può riguardare, però, la specifica proposta del M5s. Ma perché questa semplicemente si aggiunge al welfare esistente, e non lo riforma. La proposta non nasce da un disegno riformista. Ma populista. Facile, facile. Il “reddito di cittadinanza” è come se sommasse il welfare italiano e quello tedesco, come se la cosa fosse economicamente sostenibile. La contro-riforma delle pensioni non può andare insieme all’aggiunta di un “reddito di cittadinanza”, senza neanche toccare la cassa integrazione, senza toccare la selva delle pensioni di invalidità, e degli assegni corporativi, gettando subito soldi sul piatto (o promesse di soldi) senza la paziente e difficile istituzione di centri per l’impiego seri. Senza il riformismo. Ma attenzione, posto che l’Italia spende in percentuale del Pil in welfare nella media degli altri paesi europei, che però hanno delle efficienti forme di reddito minimo condizionato, il problema resta quello della composizione della spesa italiana, del tutto sbilanciata sulle pensioni. Chi si lamenta perché “prima gli italiani”, sarà pure un razzista, ma la sostanza è che in Italia non esiste un fondo per l’abitazione paragonabile a uno solo dei paesi europei (chi ne avesse voglia potrebbe leggersi questo breve rapporto elaborato in ambito europeo del 2003-2005). Eppure i soldi spesi sono in percentuale sul Pil più o meno gli stessi. Si tratta di fare delle riforme. I soldi spesi per il welfare non sarebbero tolti agli investimenti, sarebbero gli stessi soldi che si spendono oggi per il welfare, ma sarebbero spesi meglio. Da considerare poi che l’Irlanda spende addirittura meno dell’Italia, ma ha un efficientissimo (e generoso) sistema di benefit per la disoccupazione.

Non è assolutamente vero, che il welfare del modello sociale europeo andrebbe contro la Costituzione e che sarebbe una forma di schiavitù e di dipendenza. È vero esattamente il contrario. Non è un welfare alternativo al lavoro, al contrario, è una rete che aiuta proprio il lavoro, che aiuta la carriera lavorativa degli individui, che rimedia al precariato inevitabile per il lavoro come è oggi, e cerca di trarre dalla precarietà un aspetto positivo, per una mobilità che non sia solo incertezza ma anche opportunità di formazione, di esperienza

Non è assolutamente vero, che il welfare del modello sociale europeo andrebbe contro la Costituzione e che sarebbe una forma di schiavitù e di dipendenza. È vero esattamente il contrario. Non è un welfare alternativo al lavoro, al contrario, è una rete che aiuta proprio il lavoro, che aiuta la carriera lavorativa degli individui, che rimedia al precariato inevitabile per il lavoro come è oggi, e cerca di trarre dalla precarietà un aspetto positivo, per una mobilità che non sia solo incertezza ma anche opportunità di formazione, di esperienza. Ho vissuto abbastanza a lungo nei paesi del Nord Europa per vedere come questi strumenti funzionino, e funzionano bene. Il bello è che questo è un welfare che investe soprattutto sui giovani e su un’economia dinamica. Perché le cose sono due, o ragioniamo nei termini di un’economia di posti di lavoro di stato, fuori dalla realtà del mercato, dove il lavoro è sì svilito, perché è trasformato in welfare, oppure guardiamo davvero al futuro (che per la verità è il presente da un bel po’), e allora non si può sparare a zero su una riforma del welfare italiano in senso europeo. Lo sanno tutti che il welfare italiano protegge da sempre chi è inquadrato e lascia a piedi proprio i giovani che si muovono nel mercato del lavoro flessibile. Renzi ha su questo aspetto delle resistenze che lo isolano dall’Europa e lo portano a fondo.

Ciò che svilisce il lavoro è il welfare attuale, fondato sulla contrattazione, che ingessa dei posti di lavoro che non esistono più, e invita al lavoro nero, oltre ad essere un sostegno occulto per aziende decotte. E questa sì che è una forma di dipendenza, che va contro la Repubblica fondata sul lavoro. Peraltro, l’articolo 38 della Costituzione recita: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

La NASPI è stata una riforma doverosa, ma non è di questo che si tratta, perché la NASPI è solo un’indennità di disoccupazione, per chi è stato occupato per un certo periodo, e ne esistono in tutta Europa: in Germania si chiama Arbeitslosengeld I. Quello che manca in Italia è l’Arbeitslosengeld II, che in Francia si chiama Revenu de solidarité active, e che in Gran Bretagna si chiama Jobseekers allowance. Misure alle quali il Rei un po’ si avvicina, ma alla lontana, perché il principio di fondo è più orientato al contrasto alla povertà, che alla rete diffusa di sostengo per la disoccupazione, e perché i mezzi utilizzati sono scarsi, ma per usarne di adeguati, di nuovo, occorre riformare l’intero welfare.

Un riformismo vero, europeo, non può avere gli occhi così chiusi sull’essenza del modello sociale europeo. Il cui principio è distinguere lavoro e welfare, e non trasformare il lavoro in welfare. In Turchia si rimane colpiti dall’esercito che controlla i biglietti di ingresso ai musei: un impiegato che ti vende il biglietto, l’altro che te lo controlla, l’altro che lo strappa... È lavoro questo? Le condizioni del lavoro vero passano anche, ma certo non solo, per un welfare moderno, che rifletta la società di oggi, che NON è, intendiamoci, la società della fine del lavoro, perché solo il lavoro è la pietra filosofale che produce ricchezza, e su questo non ci piove. Il welfare moderno aiuta il lavoro, lo rafforza, e lo sottrae a quello che è oggi in Italia: una merce di scambio. È sotto gli occhi di tutti, il lavoro cambia, e le carriere individuali non sono più lineari; e non è necessariamente un male, ma può essere un’opportunità. Non è detto che si vivesse meglio quando, una volta ottenuto il posto, quale che fosse, grazie magari a una raccomandazione, si restava a vita incollati a quella identità, chiusi in una casella, tutta la vita. E non c’era altro da fari fuori? Non si può guardare ai giovani con meno di trent’anni, luci e macchine del ritorno al futuro, come abbiamo visto alla Leopolda, non si può lanciare di nuovo la sfida riformista, incoraggiare a guardare con ottimismo, e poi lasciare al M5s un tema da riformisti europei utilizzato, oltretutto, contro l’Europa. Lo spazio per la distinzione c’è, eccome. È la differenza che c’è fra il Venezuela e la Germania e la Francia (in questo video come funziona in Francia).

È irrealistico pensare a misure simili in Italia, perché il lavoro nero ecc.? Beh, un magistrato del lavoro tedesco disse una volta che se i disoccupati sono iscritti a un ufficio del lavoro e ricevono un reddito che gli impone di essere sempre reperibili, non possono lavorare in nero, perché lo scopri subito. Certo occorrono dei controlli, ma uno stato che ha rinunciato a raccogliere le tasse, che fa condoni come se piovesse, non riuscirà mai a fare delle riforme. I lavori socialmente utili, certo, sono una gigantesca fesseria, su questo non ci piove, ma rispondono al puro populismo della proposta M5s, che non ha capito quale è la logica di questo welfare, o fa finta di non capirla. L’economia di mercato crea ricchezza, le libertà economiche e il lavoro sono pezzi essenziali della società aperta, ma accanto a questo esiste la disoccupazione; rimuoverla è impossibile, proprio se l’economia vuole crescere. Lavoro e welfare non sono in contraddizione; sono uno in funzione dell’altro. Se non si coglie questo non c’è riformismo, ma solo belle parole.

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