Un trasformismo superlativo dietro al paese che amiamo

Evviva le convergenze e i compromessi che trasformano il regime repubblicano, senza romperlo

GIULIANO FERRARA 05.2. 2021ilfoglio.it lettura 3’

Trasformismo che non direi nemmeno buono, ma ottimo, perfino superlativo. Nelle

consultazioni e nei negoziati

che porteranno con ogni probabilità alla formazione di un governo e alla fiducia delle Camere, dunque un governo politico e parlamentare, guidato da Mario Draghi, si mostrerà ancora una volta il lato migliore delle istituzioni italiane intese come sistema, come prassi. I commentatori anglosassoni, inglesi e tedeschi, che abitano il cuore d’Europa e sono (usiamo subito una parola draghesca) la constituency naturale dell’ex presidente della Banca centrale, avranno modo di notare qualcosa che sfugge ai commentatori moralistici e impolitici del nostro giro culturale: la Costituzione scritta del 1948 ha sempre permesso, e tuttora consente, un grado di instabilità altissimo, pari però soltanto al grado di flessibilità, anch’esso stellare. La Costituzione materiale, cioè l’uso politico che diviene costume e abito paragiuridico del sistema, riflette questa flessibilità feconda, capace di trasformare il regime repubblicano senza romperlo, di trasformare partiti e movimenti, formule di compromesso e di avanzamento, diverse soluzioni di governo fissate o scelte dalla rappresentanza anche quando imposte dalle situazioni di necessità e dalla tutela creativa del capo dello stato, anche lui un eletto della rappresentanza parlamentare.

Il paese che potrebbe ora affidarsi a Draghi per un esecutivo basato sulla transumanza di tutti nel campo di tutti, o di moltissimi diversi nel campo di molti altri diversi, un caso gigantesco di trasformismo buono, è quello delle convergenze parallele, delle diverse formule di centro degasperiano e di centrosinistra anni Sessanta, è quello della non sfiducia, dell’associazione muta e dissimulata dei comunisti al governo prima della caduta del Muro di Berlino, è quello del commissariamento eurodiretto del governo Ciampi, del governo Monti, ora di un governo politico che ha il sapore dell’unità nazionale d’emergenza. Il periodo berlusconiano classico, e antiberlusconiano classico, è l’unico in cui, capolavoro misconosciuto del Cav. e della sua parabola, l’alternanza maggioritaria ha retto le sorti del paese con governi appunto alternativi tra loro (centrodestra e Ulivo). Nella decadenza riproporzionalizzata di quella dialettica, rivelatasi a un certo punto insostenibile, è riemersa la flessibilità. Ora voti di sinistra radicale, moderata, di centro, di destra popolare e di destra populista, insieme a voti della galassia ex vaffanculista, europeisti e meno europeisti, dovrebbero convergere in una soluzione duttile e di immediata urgenza.

Draghi non è il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, nonostante l’europeista fru fru Spinelli e il neogiurista Massimo Fini gridino sul Fatto al golpe contro le istituzioni, e il suo incarico è stato motivato con ferma ragionevolezza democristiana classica dal presidente della Repubblica. La circostanza è il nostro modo, flessibile e benevolente, di interpretare il brocardo schmittiano: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Nella lingua del sistema italiano quel tenebroso e bellissimo sguardo politico, dei tempi della Repubblica di Weimar, si traduce benignamente in quest’altro: “Sconsigliabile litigare come comari mentre un virus uccide e 209 miliardi attendono di essere spesi bene anziché volatilizzati”. Formula meno icastica ma altrettanto significativa.

Se il tutto andasse in blocco con una bocciatura del candidato, e per questo bisogna che l’avvocato Conte si riveli a sorpresa non un devoto di Padre Pio ma un devoto di Satana, la circostanza infausta dimostrerebbe che, malgrado l’evoluzione politica e istituzionale dei grillozzi verso un europeismo di necessità, malgrado le voci intelligenti che accompagnano gli urlacci della destra italiana (Giorgetti e soprattutto Berlusconi), il 4 marzo del 2018, data delle recenti elezioni politiche, fu un punto di non ritorno sulla via della demagogia dispiegata, un approdo capace di svellere la flessibilità di sistema. La buona scommessa è che la forza trasformazionale o performativa (si dice così, ahimè) del sistema istituzionale si riaffermi e porti a un provvisorio lieto fine, in attesa di altri benedetti trasformismi.

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