RETROSCENA DRAGHI/ Se due telefonate bastano a cambiare una Repubblica

Con la nomina di Draghi finiscono le illusioni della seconda, terza o quarta repubblica che dir si voglia. E la politica italiana dovrà rifondarsi

06.02.2021 - Gianluigi Da Rold ilsussidiario.net lettura5’

La sconfitta della politica “nuovista” l’avevamo già descritta settimana scorsa, quando un governo di minoranza al Senato ha dovuto smettere di andare invano a caccia di voti notturni, via telefono, e ha rassegnato le dimissioni. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’uomo più popolare d’Italia secondo la definizione di un redivivo Massimo D’Alema, ha scelto un saluto originale, sotto la probabile regia di Rocco Casalino: un banchetto all’aperto tra Palazzo Chigi e Montecitorio, un addio al governo (in tono popolare un po’ ridicolo), ma non alla politica e al “servizio del Paese”.

Sarà tutta da vedere la nuova avventura del giurista pugliese come nuovo leader dell’ex antipolitica, poi diventata politica e adesso in una posizione para-politica. L’avvocato Giuseppe Conte lascia promettendo di non interferire con il mandato conferito a Mario Draghi. Caspita! Difficile pensare che Draghi sia molto preoccupato e quindi risollevato da questa “non interferenza”, da questo supposto “via libera”. In realtà, quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha convocato e ha dato il mandato a Draghi, molti giochi erano già avvenuti e solo gli scribi scalcinati di molti giornali italiani e i conduttori televisivi scatenati non avevano compreso quasi nulla di quello che era già accaduto.

Cominciamo a dire che adesso il quadro è completamente cambiato, diciamo pure che il clima è mutato e persino i media danno per scontato il governo Draghi. In una sola settimana, Mario Draghi è diventato autorevolissimo e popolarissimo. Si cerca di vedere se avrà la maggioranza, si blatera sulla natura del governo: tecnico o politico? E poi, che cosa faranno i Cinquestelle? E intanto si ripercorre in tutte le salse il suo “grande curriculum”: allievo di Caffè e Modigliani, due keynesiani che poi in parte Draghi ha “tradito”, tra privatizzazioni e Goldman Sachs, ma alla fine con il quantitative easing e il “debito buono” ha recuperato e si è fatto perdonare dai suoi grandi maestri scomparsi.

Ma il vero problema è che Draghi non temeva le insidie sul suo “mandato con riserva”. Il primo punto è che Mattarella aveva posto due opzioni, che forse qualcuno non vuole capire o volutamente dimentica: se fallisce Draghi, si va alle elezioni anticipate, purtroppo a costo di affrontare il virus nei seggi e probabilmente diversi problemi di carattere sociale. Sergio Mattarella ha gelato tutti con quel suo discorso molto chiaro, anche se molti hanno poi detto che si erano persino commossi.

Ma c’è anche qualche cosa d’altro da aggiungere. Mario Draghi non esce dall’immaginario di Alessandro Di Battista come il “sacerdote” dei poteri forti, oppure come frutto maligno di un complotto del Club Bilderberg. O ancora, non nasce dalle diaboliche manovre di Matteo Renzi, che ci sperava in una simile situazione, soprattutto perché facessero fuori Conte. Draghi, in realtà, fa semplicemente parte, dopo una grande esperienza, di un’élite mondiale, con relazioni internazionali di primissimo ordine.

Una volta si è dichiarato “social-liberista”, come Carlo Rosselli quindi. In realtà, per Draghi, vista l’attuale drammatica situazione italiana una telefonatina che conta deve essere senz’altro arrivata da Angela Merkel. E un’altra telefonatina che conta è arrivata dal segretario all’economia di Joe Biden, la signora Janet Yellen, l’ex presidente della Fed americana. Per concludere è infine arrivata anche la dichiarazione-benedizione di Ursula von der Leyen. “Giuseppi” Conte, sedicente “avvocato del popolo”, può sempre dire che Draghi è un raccomandato. Amen.

Evidentemente tutte queste raccomandazioni non fanno notizia per i media italiani. Si fa solo notare che lo spread è sceso sotto i cento punti e, purtroppo, nessuno si domanda a quale quota si sarebbe fermato con un mandato, ad esempio, a Danilo Toninelli.

Inquadrato nel suo reale retroscena, il mandato a Draghi matura perché non era più possibile andare avanti con un governo immobile e noto solo per i suoi litigi interni da almeno un anno e particolarmente negli ultimi due mesi. Tra l’altro, in un quadro internazionale e di sviluppo geopolitico tutto in formazione, con una nuova scelta di politica economica e sociale dopo il fallimento del neoliberismo e i guai che ha già procurato alla democrazia rappresentativa.

Poiché l’Italia era, alla fine del 1992, la quinta potenza mondiale e oggi naviga ancora tra le prime dieci; poiché l’Italia è uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea; poiché l’Italia ha ancora un ruolo nel Mediterraneo, che le fu riconosciuto nel momento in cui nacque la Nato, anche se era stato un Paese sconfitto, “qualcuno” si è mosso e ha fatto presente che una simile situazione, come quella di questi anni, non era più tollerabile per una politica europea e atlantica. Si può anche “liquidare” una classe dirigente, ma poi bisogna costituirne un’altra, almeno credibile e non improvvisata da alcuni direttori di giornale e magari ex manager della Ferrari.

Ecco, Draghi rappresenta tutto questo, dall’inizio alla fine, ma l’effetto della sua scelta produce anche qualche cosa di più. Con la nomina di Draghi è finita la ricreazione, per usare un linguaggio ironico. In realtà, è finita l’epoca delle “illusioni” della seconda, terza, quarta repubblica che dir si voglia. È terminata l’epoca della cosiddetta “questione morale” usata come martello giustizialista: è conclusa l’esperienza pasticciata che ha costruito, attraverso varie fasi, lentamente il Partito democratico come centro del sistema, nato dall’equivoco che i post-comunisti fossero i “veri” eredi di Filippo Turati (roba da pazzi!) e i cattolici di sinistra fossero l’unica spinta ideale e morale, per un Paese che in realtà ha sempre avuto paura delle riforme.

 

E poi l’esplosione dell’antipolitica, nata dopo i governi di tecnici con Mario Monti ed Elsa Fornero, preoccupati della finanza, dei derivati, delle banche indebitate, del pareggio di bilancio statale, dei tagli e dell’austerity, l’ultima spinta per far decollare il partito di Beppe Grillo e di Matteo Salvini.

A questo punto si sta assistendo, ignorando completamente i retroscena, a una lunga “tiritera” per vedere quale tipo di governo si formerà: appunto se sarà tecnico e politico, se ci saranno ministri tecnici o politici. La cosa più grottesca è quella di rivendicare una continuità tra questo governo di Mario Draghi e quelli che sono arrivati dopo il 1992. Come dice Sabino Cassese, “tutti i governi sono politici”. E questo governo sarà pure di svolta.

Draghi in realtà cercherà di rimettere in sesto un Paese stremato nel giro di un anno. Poi farà i conti a lui più congeniali. Ma intanto tutta la politica italiana, che dovrà in qualche modo partecipare o assistere all’azione di Draghi, dovrà fare i conti con una sua rifondazione. Tutte le illusioni, dalla democrazia diretta via internet, fino alla riverniciatura del passato remoto andranno probabilmente in soffitta.

È abbastanza strano che si faccia finta di non comprendere. I Cinquestelle sono in subbuglio, ma ci stanno pensando; il Pd non vuole la Lega al governo, ma Zingaretti dice: “Siamo pronti a fare la nostra parte”. Insomma, ci sono molti “schizzinosi”.

Ma guardando visite, colloqui e dichiarazioni, nel giro di una settimana si è passati dallo choc e al desiderio di distinguersi, al più banale “aggiungi un posto a tavola”

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