La seconda repubblica e il crollo del pentapartito

Il Pds fu complice del partiticidio, dopo fu solo populismo

Michele Prospero — 4 Aprile 2021 ilriformista.it

Il Pds fu complice del partiticidio, dopo fu solo populismo

In ogni disputa teorico-politica bisognerebbe, per evitare incomprensioni, condividere subito la mozione di Hobbes. Ovvero, precisare con definizioni rigorose i concetti evocati per impedire così un uso equivoco o metaforico delle parole. Per quanto riguarda il populismo, la migliore definizione rimane quella suggerita da Huntington. «Il populista nega la necessità di una struttura che colleghi il popolo ai leaders politici e vagheggia la democrazia senza partiti che sono ritenuti un ostacolo all’espressione della volontà di tutti». Si tratta non di un insulto quindi ma di una modalità di politica che salta le mediazioni, contrae le strutture organizzate denunciate come un diaframma che comprime la bella società civile, i mitici cittadini.

Entro questa generale avversione alle mediazioni si possono distinguere una declinazione iperdemocratica, come quella americana del primo Novecento (primarie, limite dei mandati, revoca), e una versione illiberale come quella raccolta dal M5s in una chiave di ostilità alla rappresentanza. In America le istanze del forte movimento populista sono state istituzionalizzate, non hanno rotto il sistema politico-costituzionale.

In Italia invece in un quadro assai più compromesso la richiesta del cattolicesimo democratico (e raccolta quale nuova ideologia dal “Pds di Occhetto, Veltroni, Barbera”, come dice Ceccanti) non ha trovato una rete di istituzioni forte e assorbente e anzi il cambiamento del sovrano (dai partiti al cittadino), accentuando la rottura del sistema già in crisi per molteplici cause, ha favorito l’insorgenza delle varianti illiberali di populismo.

Il rimprovero, che Follini però non coglie, è anzitutto rivolto al Pds come principale partito sopravvissuto alla catastrofe e che avrebbe dovuto proprio per questa “fortuna” assumere con “virtù” una ottica di sistema (salvare i partiti storici come interesse prioritario della democrazia). Forse per una carenza di identità, e anche per una fragilità di cultura politico-istituzionale, insomma per una lacuna di “leczione ed experenzia”, la leadership postcomunista nella crisi di regime ha preso la strada più breve.

È anche legittimo provare l’ebbrezza della potenza per sbarazzarsi degli antagonisti, soprattutto in una fase difficile per la sopravvivenza e accodarsi al movimento referendario e al clima dell’epoca che consentivano di convertire la crisi esterna (crollo del comunismo) in crisi interna (delegittimazione dei partiti di governo). Fa parte dell’essenza della politica sprigionare ambizione di potenza. Ma se questa esibizione di forza culmina nella sconfitta della gioiosa macchina da guerra, allora si è trattato semplicemente, come chiarisce Machiavelli, di una “cattiva ambizione” che scivola in “sciaura”.

La liquidazione dello storico Psi con il tintinnio delle manette e le forbici referendarie ha aperto una ferita lacerante, mai riassorbita. Una soluzione politica era costosa, difficile da spiegare al popolo dei fax e delle monetine, ma non è stata mai presa in considerazione. Quando Gerardo Bianco ha chiesto una dilazione temporale del voto per consentire ai popolari di riorganizzarsi in vista del maggioritario, il Pds si è voltato dall’altra parte invocando quello che Occhetto chiamò il “lavacro democratico”. Il giornale di riferimento, Repubblica, dipingeva la richiesta del tutto ragionevole dei post-Dc come la prova di una controrivoluzione in atto. La volontà di incamerare una vittoria annunciata era così forte che il Pds aveva già pronti “manifesti, adesivi, depliant. Tutto pur di sostenere la petizione popolare per la richiesta di elezioni immediate” (A. Caporale, Repubblica del 17 novembre 1993). Certo il Pds ha avuto con la sua condotta egoista almeno dieci anni in più di vita rispetto ai competitori, ma l’assenza di una preoccupazione di sistema, accantonata per cavalcare l’onda ingannevole della “rivoluzione italiana”, ha contribuito al collasso storico della democrazia repubblicana e in definitiva alla triste scomparsa delle stesse forze post-comuniste.

Il nodo dell’impatto delle aperture iperdemocratiche (i cittadini sono stati espropriati del loro potere da una casta, da una oligarchia, da una nomenclatura, da un regime) in un sistema semplificato e sfibrato dalla disintermediazione lo ha colto con efficacia Huntington rimarcando «il curioso paradosso per cui mentre la partecipazione popolare cresce, proprio la principale struttura pensata per organizzare e convogliare quella partecipazione –il partito politico- attraversa una fase di declino». Questo urto tra apertura (che raggiunge il culmine con i visitatori dei gazebo chiamati senza distinzioni a eleggere il segretario di un partito: il popolo è ritenuto dallo statuto del Pd come una entità omogenea, indifferenziata, il tutto nella grammatica specifica del populismo) e scomparsa della mediazione o politica organizzata provoca un insidioso corto circuito che alimenta in definitiva il sovranismo e il populismo.

La fortunata formula della transizione dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini ha provocato evidenti problemi di rendimento democratico. Proprio Scoppola ha richiamato questi nodi lancinanti parlando di un processo “che si è imposto in forme non guidate e senza un compiuto disegno politico”. Il mito della società civile, la retorica del cittadino-sovrano hanno estirpato le ultime radici di un sistema malconcio precipitando in un vuoto di direzione politica senza più poter contare su soggetti in grado di gestire la transizione. Il risultato del trentennio della seconda repubblica come complessivo momento populista è il susseguirsi non di regolari alternanze ma di crisi di regime con cadute e sostituzioni di interi gruppi dirigenti.

La carenza di partiti quali soggetti per la selezione delle classi di governo, l’organizzazione del conflitto di classe, la socializzazione politica di massa ha prodotto un collasso della politica, del modello economico, della società civile. Ancora Huntington è illuminante al riguardo: «Uno Stato privo dei partiti è anche uno Stato privo dei mezzi istituzionali adatti a generare il mutamento e ad assorbirne l’impatto, la sua capacità di modernizzarsi, da un punto di vista politico, economico e sociale ne viene drasticamente limitata». Ma questa situazione non è più storia, è purtroppo ancora cronaca.

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