Di Maio vola a Washington, obiettivo: redenzione

Gian Michelessin: Luigi di Maio un “figliol prodigo pronto a venir accolto nella casa del padre”; mai descrizione fu più calzante

Emanuel Pietrobon 12 APRILE 2021 ilgiornale.it

www.insideover.com L’11 aprile è ricorso il centosessantesimo anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche fra Italia e Stati Uniti, un appuntamento più che mai importante e che verrà adeguatamente commemorato nelle giornate del 12 e del 13 alla presenza di Luigi di Maio e Antony Blinken.

Di Maio, mettendo piede a Washington per l’evento solenne, diventa il primo ministro degli esteri in assoluto ad essere ricevuto presso la corte di Joe Biden – non il frutto del caso, ma il risultato di un freddo calcolo (da parte americana) – e ivi si reca con il duplice obiettivo di fare mea culpa e prestare un sacramentum fidelitatis, nella speranza e nell’aspettativa che a lui venga concessa la remissione dei peccati di gioventù e che all’Italia venga data manforte nel Mediterraneo (e in Europa) in chiave antiturca, antirussa e, possibilmente, anche antitedesca.

Mea culpa e sacramentum

L’analista Gian Micalessin, disaminando sulle colonne de Il Giornale la ventura missione del titolare della Farnesina, ha definito Luigi di Maio un “figliol prodigo pronto a venir accolto nella casa del padre”; mai descrizione fu più calzante. Perché di Maio, multipolarista redento, si trova a Washington per fare ammenda dei propri peccati e chiedere una grazia che, se concessa, potrebbe rivelarsi determinante ai fini del proseguimento e del concretamento dell’agenda estera del governo Draghi.

Recandosi a Washington da Antony Blinken, che di Maio vede come un padrino, un mentore e un confessore, l’Italia sta chiedendo alla Casa Bianca di chiudere un occhio, anzi due, sulle tresche del precedente esecutivo con i “rivali del mondo libero”, cioè la Russia – alla quale era stato permesso di allestire, tra lo sconcerto generale degli alleati occidentali, l’imponente missione umanitaria “Dalla Russia con amore” – e la Cina – con la quale il titolare della Farnesina, e in generale il M5S, ha flirtato con solerzia e persistenza, giocando un ruolo determinante nel condurre il Bel Paese ad aderire alla Nuova via della seta.

Nella consapevolezza che un mea maxima culpa non sia sufficiente a ottenere l’agognato perdono, perché innumerevoli sono stati i flirt extraconiugali che l’Italia si è concessa durante l’era Conte, il titolare della Farnesina è stato mandato a Washington da Mario Draghi per prestare un giuramento di fedeltà, un sacramentum fidelitatis, portando con sé un piatto ricco di olocausti: il congelamento dell’esportazione di prodotti militari all’Arabia Saudita, il caso Biot, l’impiego di poteri speciali contro i privati cinesi interessati a investire nei settori strategici nostrani, l’entrata in gamba tesa nella sensibile questione uigura e l’ostinato diniego all’utilizzo in via emergenziale dello Sputnik V.

In cambio dei suddetti agnelli sacrificali, il figliuol prodigo chiede al padre di essere riaccettato e reintegrato pienamente tra le mura domestiche, dunque di essere investito dei ruoli che crede gli spettino di diritto: la funzione di contenimento antifrancese e antitedesco all’interno dell’Unione Europea e l’affidamento esclusivo del fascicolo Mediterraneo; teatro, quest’ultimo, dove l’Italia vorrebbe rientrare dopo dieci anni di assenza e contrastare, per conto degli Stati Uniti, la crescente influenza di Russia, Turchia (e Cina).

Le difficoltà della strategia Draghi

In questo contesto di ricerca di redenzione e riscatto si inquadrano le recenti esternazioni di Draghi su Recep Tayyip Erdogan, che, curiosamente ma non sorprendentemente, non sono state riprese né supportate da nessun altro stato membro dell’Ue. Perché Draghi, invero, accusando Erdogan di essere un dittatore – senza previo coordinamento con Di Maio, colui che ha intensificato la relazione di accomodamento con la Turchia – ha voluto inviare un messaggio all’amministrazione Biden: il presidente turco è un membro di quella comunità di stati illiberali che i Dem hanno promesso di combattere, nonché un lunatico amante del Cremlino e di Pechino, mentre noi siamo democratici, leali e abbiamo i mezzi per operare nel Mediterraneo (e in Europa).

Fare ammenda e sperare nella grazia, però, potrebbe non bastare: le presunte ritorsioni contro Leonardo (al momento una mera indiscrezione) e la visita in pompa magna ad Ankara dell’intero esecutivo libico, cioè il neo-capo di Stato Abdulhamid Dabaiba e quattordici ministri – che, curiosamente, inizia nello stesso giorno in cui Di Maio sbarca a Washington –, sono la dimostrazione di come l’Italia abbisogni di formulare una strategia che preveda l’autonomia in luogo della perenne ricerca di salvataggi miracolistici da parte altrui.

Lo avevamo scritto sulle colonne, all’indomani della presa di posizione di Draghi, che l’Italia avrebbe dovuto ponderare con discernimento l’eventualità di dare vita ad uno scontro frontale con la Turchia, perché trattasi di una potenza in ascesa, e, in caso affermativo, prepararsi all’arrivo di una slavina, ovverosia di “operazioni asimmetriche, manovre destabilizzanti e campagne di bellicismo economico”, “bruschi e improvvisi arresti [di] progetti di cooperazione, agende congiunte e piani di investimento” e “atti di sabotaggio, insurgenze estemporanee in prossimità degli obiettivi nostrani e concorrenza aggressiva da parte dei grandi privati turchi”.

Pronosticato, è puntualmente accaduto: prima la diffusione di indiscrezioni relative a rappresaglie contro Leonardo (un monito?), poi lo sbarco dell’intero esecutivo libico ad Ankara per discutere di “una serie di pratiche comuni nel settore dei servizi, energia e salute, sul ritorno delle aziende turche in Libia e sul completamento dei progetti in stallo”. Che l’Italia apra gli occhi e presti attenzione: si scrive ritorno delle aziende turche in Libia, ma si legge concorrenza aggressiva in chiave anti-italiana. Oggi è Tripoli, ma domani potrebbero essere Balcani occidentali, Baku e Asia centrale; perciò è imperativo che alle esternazioni seguano i fatti, o l’infelice uscita del primo ministro potrebbe rivelarsi il catalizzatore della nostra involuzione metternichiana.

In tutto questo, la decisione di aver mantenuto alla guida degli Esteri una persona, sì, industriosa, ma inesperta, volubile e senza una weltanschauung, pronta a sconfessare in un mese tutto ciò in cui ha creduto e per cui ha lavorato pur di sopravvivere politicamente, potrebbe mostrarsi altrettanto deleteria per la grande strategia italiana – sempre ammettendo che ve ne sia una.

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