Le ragioni di un Sì. No alla separazione, lettera aperta a Gori: “Non hai cambiato il Pd, il Pd ha cambiato te”

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Claudio Velardi. 6 Novembre 2025 alle 03:44

Caro Giorgio,

sei la più stimabile tra le persone stimabili del PD, ma consentimi di rispondere con una certa nettezza agli argomenti che ieri hai esposto sul Corriere della Sera a favore di un NO dei riformisti al referendum sulla separazione delle carriere. Procedo per punti, come hai fatto tu, sintetizzando – spero correttamente – il tuo pensiero:

1. “I passaggi tra le funzioni sono già rarissimi; la legge Cartabia li ha quasi azzerati”. Anche tu ripeti questo errore! La separazione delle funzioni, sostanzialmente stabilizzata con la riforma Cartabia, è un’ottima cosa, perché impedisce assurdità del passato, come Davigo che finisce la carriera da Presidente di sezione di Corte di Cassazione, dopo una vita da PM. Ma anche a funzioni separate, oggi PM e Giudici rimangono nello stesso ordinamento, nella stessa famiglia, o se preferisci nella stessa squadra di calcio. Il punto è che l’arbitro, cioè il giudice nel processo accusatorio, non può appartenere ad una delle due squadre. Ecco perché é necessaria la separazione delle carriere: formazioni separate, CSM separati, percorsi professionali autonomi ed indipendenti, associazionismo separato.

2. “Condividere formazione e CSM unico non è un ostacolo all’obiettivo costituzionale”. Lo è, invece, sul piano culturale e della governance: un autogoverno unico e un percorso formativo comune tendono a creare una cultura di corpo indifferenziata tra giudicanti e requirenti. La separazione dei Consigli e dei percorsi serve proprio a evitare controlli incrociati e conflitti d’interesse (per esempio, valutazioni di carriera del PM influenzate da togati giudicanti e viceversa). Due filiere distinte chiariscono i ruoli e rafforzano entrambe le indipendenze.

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3. “Non c’è pericolosa contiguità tra PM e giudice; anzi, il sistema funziona”. I fatti contraddicono l’ottimismo: tassi elevati di custodia cautelare, frequenti conferme in fotocopia delle richieste del PM in fase precoce, e un linguaggio comune tra uffici requirenti e giudicanti sono segnali di una contiguità culturale. La separazione delle carriere non garantisce da sola la correzione di queste derive, ma elimina il presupposto (la filiera unica) che le facilita. Dire “funziona” mentre si riconoscono difetti strutturali equivale a minimizzare una patologia.

4. “Il vero rischio è che la separazione sia un passo verso un PM sotto il governo; in molti Paesi è così”. È un falso nesso causale. La separazione delle carriere non implica dipendenza dall’esecutivo, è la Costituzione a fare da guida. Il Sì punta a due carriere entrambe autonome, con autogoverni distinti e con l’obbligatorietà dell’azione penale esplicitamente preservata. Se si vuole evitare ogni influenza del governo, la via maestra è proprio blindare per Costituzione autonomia e obbligatorietà del PM, non mantenerlo nella stessa carriera del giudice. Separare è cosa molto diversa dal subordinare: anzi, chiarisce l’indipendenza di entrambi i rami.

5. La riforma non incide sui problemi veri: durata dei processi, carceri, eccessi di preventiva, ecc… Nessuna riforma monotematica risolve tutto. Ma la separazione è la condizione abilitante per riforme che incidano davvero su tempi e garanzie: filiere e responsabilità chiare rendono più lineari le valutazioni disciplinari, riducono la conflittualità interna al CSM, favoriscono standard uniformi su misure cautelari, discovery, cross-examination, filtri all’azione penale, priorità trasparenti. Senza ruoli nettamente separati, ogni intervento successivo resta esposto alla “zona grigia” tra requirente e giudicante.

6. “Dire Sì significa allinearsi alla polemica contro la magistratura; meglio non schiacciarsi”. Questo è un frame politicista che sposta il discorso sul “chi” invece che sul “che cosa”. Il Sì non è “contro i magistrati”, è pro-garanzie: chiede regole più chiare nell’interesse di imputati, vittime e comunità, e tutela anche i magistrati dal sospetto di promiscuità. Peraltro, il mondo forense da anni chiede questa riforma; e dentro la stessa magistratura le posizioni sono articolate, non unanimistiche.

7. “Rappresentare i riformisti non significa firmare in bianco: temo che la riforma apra a derive peggiori”. Proprio per evitare “firme in bianco” la scelta riformista è costituzionalizzare i paletti: due carriere, due Consigli, autonomia e indipendenza garantite per entrambe, obbligatorietà dell’azione penale, criteri di priorità tracciabili. È la via più prudente e garantista per chi, da riformista, vuole meno ambiguità di sistema e più responsabilità.

Chiudo con un piccolo, sempre amichevole ricordo. Tanti anni fa – sarà stato nel 2012, durante le prime primarie del PD cui partecipò Matteo Renzi, perdendole – ci incontrammo alla stazione Termini, e chiacchierammo dell’appuntamento che si avvicinava. Tu eri molto fiducioso, io meno. Pensavi che Renzi ce l’avrebbe fatta e che sareste riusciti a cambiare radicalmente il PD. Io lo speravo quanto te, ma ti espressi tutti i miei dubbi, avendo conosciuto da vicino quel pachiderma. Ci salutammo con calore. Da allora altre volte ci siamo visti, spesso tornando sul tema “come cambiare il PD”. Se sei diventato un “riformista per il NO” sono costretto a concludere che tu non sei riuscito a cambiare il PD, ma forse è stato il PD a cambiare te. Con amicizia immutata.

Claudio Velardi

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