Luigi Bisignani, tutta la verità su Berlusconi, Renzi, Gad Lerne, Vittorio Feltri: "Chi sono i migliori e i peggiori"

Quando apre la porta della sua casa ai Parioli, Luigi Bisignani mi scruta senza una parola. Lo fisso anch’io rimanendo zitto.

Poi esclamiamo insieme: «Ci saremmo riconosciuti pure se ci fossimo incontrati per caso». Un modo patetico per dirci che non siamo cambiati troppo. Non ci si vedeva, Luigi ed io, dai primi anni ’80 quando eravamo insieme all’Ansa, dove io ho imparato il mestiere e lui ha fatto una bella carriera, ricca di scoop (primo al mondo a dare la notizia della morte di Paolo VI, e cose così).

Bisignani è davvero come a vent’anni quando iniziò col giornalismo subito dopo il liceo e appena orfano del padre, potente dg della Pirelli, già capo della filiale in Argentina, Paese dove Luigi trascorse infanzia e adolescenza. Ha come allora, conducendomi nel salotto, l’aria sbarazzina di chi prende la vita come viene, curioso di vedere quel che ha da dare. Sarà che è contento di vedermi, fatto sta che sorride allegro per l’intervista che verrà e mostra vent’anni meno dei 61 che gli affibbia l’anagrafe.

«Perché nel ’90 hai smesso di fare il giornalista, nonostante le soddisfazioni?», chiedo mentre siedo su un divano verde sotto un dipinto del Cavalier d’Arpino -gli Orazi e i Curiazi-, versione minore della più celebre in Vaticano.

 «Un errore clamoroso che ho fatto per vanità -risponde Luigi che si sistema accanto a una sua foto da ragazzo mentre legge in San Pietro una giaculatoria alla presenza di Paolo VI-. La Ferruzzi mi offriva la direzione generale, il posto che fu di mio padre alla Pirelli. Significava avere un piede nel Messaggero ed entrare così nel cda della mia amatissima Ansa, dandomi la sensazione di non averla mai lasciata».

«Ti sei invece messo al centro di intrighi e ti sei beccato la fama di faccendiere», dico.

«Epiteto in cui non mi riconosco affatto», ribatte Bisignani aggrottando la fronte. «A me piace -spiega e muove le mani come se montasse un congegno- immaginare progetti e costruire sugli uomini. Ho scoperto questa inclinazione a dodici anni. Eravamo appena tornati dall’Argentina e, in attesa che l’appartamento fosse pronto, stavamo all’Hotel Ritz, qui ai Parioli. Tra gli ospiti, Juan Carlos Lorenzo, allenatore della Lazio. Era da poco a Roma e capiva male l’italiano. Col mio spagnolo, mi misi a fargli da interprete con giocatori e dirigenti. Ero con lui allo stadio, nei ritiri, facevo il collegamento con Lovati, suo vice. Mettevo d’accordo, appianavo malintesi. Sono diventato laziale e ho intuito la mia vocazione di “triangolatore”. Di “stimolatore di intelligenze” come mi definì un alto prelato. Lì dove sei seduto tu, c’era Renato Altissimo con Alfredo Biondi e abbiamo risolto un congresso liberale. Sempre lì c’era Craxi, per un’altra questione. Una volta sei cardinali vollero venire qui per confrontarci in libertà, seduti proprio dove sei tu».

«Se continui a ficcare gente dove sono seduto io, finirò schiacciato», osservo.

«Un triangolatore non è un faccendiere -continua Luigi, ritrovando il sorriso-. Le figure di raccordo servono alla democrazia. Evito i salotti. Preferisco stare fra tre, quattro persone, condizione ideale per le intuizioni fruttuose. Le conoscenze sono come le ciliegie. L’una porta l’altra. Ma vanno coltivate con intelligenza. Mai dare bufale o abbandonarle nella disgrazia. Il mio maestro è stato Giulio Andreotti. Da lui ho imparato a prendere con ironia e leggerezza il brutto e il bello della vita. La caratteristica di ogni potente è la fragilità. I Craxi, gli Andreotti, Berlusconi, il Matteo nazionale -che ho studiato negli ultimi mesi per scrivere con Paolo Madron il libro appena uscito e già stravenduto, I potenti al tempo di Renzi- di fronte alle decisioni sono soli e incerti. Io sono sempre stato vicino a tutti. Nell’auge e nella polvere».

Come si vede, il faccendiere Bisignani gioca a carte scoperte. Ed è anche un cuor tenero. Durante l’intervista aveva tirato una frecciata a un detrattore, destinata a essere pubblicata. Più tardi però mi ha telefonato: «Ho saputo che purtroppo quella persona è malata. Ti prego di togliere, per rispetto, ogni riferimento». Fatto.

A furia di maneggi hai subito condanne e assaporato la gattabuia. Chi te lo fa fare?

«Infatti, non lo faccio più. Ora, scrivo libri e la sceneggiatura di un film, commistione del mio volume Il direttore e de L'uomo che sussurrava ai potenti, il precedente best seller con Madron».

Fare il triangolatore, per usare il tuo gergo, ti ha reso ricco. 

«Mai stato ricco. Per vivere devo lavorare. Perciò scrivo e sono consulente di gruppi istituzionali. Due case avevo e due ne ho».

Ti giudichi meno colpevole di quanto ti facciano?

«Chi mi conosce, mi apprezza. Anche chi mi considerava il diavolo, come Carlo Freccero, passata una serata insieme, si è ricreduto. L’editore dei miei libri con Madron, Chiarelettere -come dire Il Fatto quotidiano- all’inizio mi guardava di sbieco. Ora non più». 

Negli Usa, patria della lobby, saresti quanto di più normale. 

«Sarei più ricco e con meno guai. L’alone saturnino è un fatto italiano».

L’occhiuto Ordine dei giornalisti, preso atto delle condanne, ti ha radiato.

«Inutile cattiveria. Mi ero ritirato dalla professione. È stato un gesto opportunistico: l’Ordine voleva mostrarsi virtuoso. Siamo fatti così».

Chi tra i giornalisti si è più accanito con te?

«Gad Lerner è uno che non tralascia occasione per attaccarmi. Forse perché, come dice il comune amico Angelo Lovati, vuole fare il Bisignani di Romano Prodi senza riuscirci». 

Tuo fratello Giovanni, a lungo ad di Alitalia, ti approva o rimprovera?

«(ride) Mi vuole tanto bene da non rimproverarmi, ma non abbastanza da approvarmi. Mi consolo con l’assenso pieno dei miei quattro figli, tutti all’estero, ma con cui mi sento tre volte al giorno».

Rifaresti tutto?

«Vado avanti senza voltarmi indietro. Ho fatto più cose buone che cattive. Ho aiutato un sacco di gente in difficoltà e tanti giovani a trovare la loro strada». 

Vittorio Feltri dichiarò che fosti tu a ricevere dal cardinal Bertone e a girare al Giornale la velina falsa che invelenì il caso Dino Boffo.

«Mai visto Bertone in vita mia. A Feltri l’hanno raccontato, mettendomi in mezzo, perché col mio marchio luciferino la cosa diventava credibile. Una balla». 

Il Cav, allora premier, disse di te: «È più potente di me».

«E mi ha messo nei guai. Sono frasi come queste che hanno fatto di me o il mostro o il santo».

Esiste un italiano in grado di opporsi allo strapotere di Frau Merkel?

«Solo Mario Draghi nella posizione che attualmente occupa. Neanche lui se invece fosse premier italiano».

Chi ci libererà degli scafisti, affondando i barconi?

«Nessuno. Sono cose che si decidono e liquidano in segreto. Craxi l’avrebbe fatto».

Con che obiettivo hai scritto i libri di ricordi zeppi di fatti e nomi?

«Legittima difesa. Chiarelettere aveva commissionato all’eccellente Madron una mia biografia tombale Fu lui stesso a dirmelo. Gli proposi allora di scriverla insieme, raccontando ciò che avevo davvero fatto. Ne scaturì, L’uomo che sussurrava ai potenti: 170 mila copie vendute».

Le renziane della Vigilanza Rai, Lorenza Bonaccorsi e Laura Cantini, vogliono impedirti di apparire in Rai per parlare del vostro libro sul renzismo.

«Per farsi belle agli occhi di Renzi e vincere la concorrenza interna. Il giglio magico è un coacervo di tribù antagoniste».

Cosa pensi di Renzi?

«Un fuoriclasse. Potrei votarlo».

I più grandi tra i politici che hai frequentati?

«Andreotti, Craxi e D’Alema che con la Bicamerale aveva capito come si poteva cambiare l’Italia. Fu l’insipienza di Berlusconi a fare fallire un’ottima occasione». 

Come ha silurato il Patto del Nazareno, dopo averlo voluto.

«Era il più renziano del gruppetto che trattava con Renzi. Gianni Letta e Denis Verdini dovevano frenare le sue concessioni. “Questo è troppo”, gli dicevano. Era convinto di affascinare Renzi e lo trattava come una soubrette che si conquista con un’offa. Quando capì che si era illuso, si è offeso».

Tra le pieghe del tuo lobbismo, c'è qualche oncia di patriottismo? 

«C’è soprattutto questo. Più fai crescere una persona, più regali un’opportunità al Paese».

di Giancarlo Perna Libero 3.5.2015

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