CONTRARIAN Foglio 11.4.2015

Ecco come e quando l'Italia guidava l'economia europea. Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la puntata della mia rubrica su Radio Radicale intitolata "Oikonomia

di Marco Valerio Lo Prete | 11 Aprile 2016 ore 14:04

Nelle ultime due puntate della rubrica ho ricostruito l’affermazione in Europa, attorno al 1600, dello Stato fiscale ed esattore come lo conosciamo oggi. Ho descritto come la fiscalità pubblica abbia preso forme diverse fra alcuni grandi paesi, Spagna, Francia e Inghilterra in particolare. E l’Italia, a che punto era? Dedicherò questa e la prossima puntata a una possibile risposta. Proprio nel Seicento, infatti, si chiuse per il nostro paese – che sulla cartina politica ovviamente non si chiama ancora “Italia” – la prima delle due lunghe fasi di crescita economica degli ultimi mille anni. La seconda di queste fasi di crescita è quella che ha occupato tutto il 900, vedendo l’Italia in posizione avanzata ma non di traino. La prima fase prolungata di crescita nel nostro paese, invece, è quella che caratterizza il Tardo Medioevo e che termina proprio nel Seicento, con l’Italia che allora era decisamente in posizione di traino.

Per comprendere la fine di quel ciclo, e il sopravvento altrove in Europa dello Stato militare-fiscale, farò ampi riferimenti ai lavori di Paolo Malanima, docente di Storia economica prima all’Università di Pisa e poi a quella di Catanzaro. Malanima, autore tra gli altri di un libro intitolato “La fine del primato”, dedicato alla “crisi e alla riconversione nell’Italia del Seicento” (Bruno Mondadori), approfondisce l’intuizione di un altro storico e medievista italiano, Gino Luzzatto, secondo cui l’esame dei redditi e del potere d’acquisto nelle epoche passata avrebbe costituito “la quadratura del circolo della storia economica”.

Malanima infatti tenta di dare un ordine di grandezza quanto più preciso possibile al primato economico dell’Italia del centro Nord di metà 500, quella per intenderci che va dalle Alpi alla Toscana meridionale, all’Umbria e alle Marche incluse. Lo storico inizia descrivendo un’economia che si muoveva allora vicino alla sua “frontiera delle possibilità di produzione”, frontiera che dipende dalle tecniche note e dalle risorse disponibili in un certo momento. Nello specifico, l’Italia del XVI secolo era unica in Europa in quanto a sviluppo urbano e in quanto a forza e varietà della sua base produttiva. Nel 1600 il nostro paese aveva il 38% del totale europeo delle popolazioni urbane che si trovavano in centri con più di 10.000 abitanti. Per trovare un tasso di urbanizzazione più alto di quello italiano Italia bisognava andare nelle Fiandre o nei Paesi Bassi, ma in questi due casi ovviamente la modestissima estensione territoriale facilitava una maggiore concentrazione nelle città.

I settori trainanti della base produttiva di questo sistema urbano del centro-nord erano tre: “L’industria della lana, quella della sera e il settore dei commerci di ampio raggio che includeva la navigazione, il commercio dei tessili e la banca”. Uno dei cambiamenti che aveva agito come stimolo di questi settori era la variazione della domanda esterna ad opera della cosiddetta “Rivoluzione commerciale” del Medioevo: “La crescita della popolazione e dei commerci in tutta Europa e nel Mediterraneo aveva avvantaggiato le città italiane, che si trovavano in una posizione geografica favorevole – scrive Malanima – I nodi del sistema urbano avevano allacciato relazioni di scambio con aree distanti. L’espansione del mercato esterno aveva innescato una serie di reazioni a catena. Non si può certo escludere che la domanda interna, in aumento a causa dell’espansione demografica, abbia svolto un ruolo in questo processo. Essa, però, poteva al massimo generare una lenta crescita, come accadde in altre regioni europee; non certo consentire all’economia di arrivare al primato. Per raggiungere il punto più avanzato in rapporto alla frontiera delle potenzialità occorreva ben altro”.

Prendendo a riferimento il 1570, Malanima passa poi alla misurazione di questa economia. Prima rilevando che, in termini di occupazione, la produzione della lana e della seta erano i settori più importanti. A Firenze per esempio, verso il 1580, erano oltre 20mila gli occupati nella lana insieme ai loro familiari, non pochi a fronte di una popolazione di 65mila abitanti. “Dalle due industrie della lana e della sete insieme traevano dunque di che vivere 400-500.000 persone: più del 5-6% di tutta la popolazione dell’area centro-settentrionale, o il 40-50% delle popolazioni di città con più di 10mila abitanti”.

Quanto al commercio, inteso in senso ampio, Venezia controllava quello delle spezie e i genovesi erano in posizione centrale nella finanza.

Infine Malanima stima il prodotto pro capite dell’Italia centro-settentrionale alla fine del 500. Stante la lacunosità dei dati, lo fa battendo tre strade che solitamente sono considerate alternative: i redditi noti, poi i livelli di consumo e infine la produzione. Si prenda la seconda via: per sostenere un consumo medio annuo di 220 kg di grano per il pane, di 182 kg di vino e di 9,4 kg di olio, erano necessarie all’epoca circa 71 lire fiorentine. Se a ciò si aggiungono le spese per l’affitto, le tasse, gli abiti, si superano le 150 lire annue. “Sulla base di questi elementi – conclude lo storico – si può porre il prodotto pro capite del Centro-Nord verso il 1570, con una popolazione pari a 7 milioni di abitanti, intorno a 140-160 lire milanesi pro capite, corrispondenti a 170-190 lire fiorentine”. Per svolgere un confronto internazionale, si fissi il prodotto pro capite inglese del 1820 pari a 100: alla fine del 500 il reddito pro capite italiano era superiore a 65, avvicinato da quello delle Fiandre, il reddito dei Paesi Bassi era compreso tra 60 e 65, quello di Spagna, Francia e Inghilterra tra 45 e 60.

Analizzerò nella prossima puntata i primi scricchiolii di questo primato italiano.

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