In ricordo di Fausto Coppi, scaliamo il mistero della vita

Un uomo perennemente in fuga. Verso dove e lontano da chi? Da che cosa fuggiva? Che cosa voleva dimostrare? Pedala, pedala. E va su. Ancora. E va su

di Davide D'Alessandro 4.12.2017www.ilfoglio.it

Quando ricorrono gli anni della scomparsa di un grande scrittore, se ne celebrano i capolavori, il pensiero, l’influenza esercitata in un determinato periodo storico. Quando ricorrono gli anni della scomparsa di un grande campione, del Campionissimo (58, il prossimo 2 gennaio), se ne potrebbero ricordare le imprese (2 Tour de France, 5 Giri d’Italia, 5 Giri di Lombardia, 3 Milano-Sanremo, il Mondiale, la Parigi-Roubaix, la Freccia Vallone e tanto altro), l’amore impossibile, la malaria che banalmente lo vinse, ma nel caso di Fausto Coppi occorre esaltarne il sacrificio, la piega malinconica del volto, «la fatica muta e bianca, che non cambia mai», come canta Gino Paoli. Fu un altro Gino, Bartali, a tenergli compagnia, a formare la diade della rivalità, a sostenerne il corpo sulle salite dove si arrampicarono, tra montagne imbiancate e silenti. Gino e Fausto. Non ci sarebbe stato l’uno senza l’altro. E l’Italia divisa come sempre, guelfi e ghibellini, anche grazie ai loro trionfi trovò la forza di credere nella rinascita dopo la seconda, sciagurata guerra.

Racconta Giampaolo Ormezzano: «Bartali era la Dc e Coppi era il rosso. Bartali era monogamo e Coppi era il bigamo. Bartali era il casto e Coppi il libertino. Bartali era quello che non si dopava e Coppi era quello che prendeva la simpamina. Bartali era l’uomo di ferro e Coppi era fragile. Bartali era stato un partigiano e Coppi era stato prigioniero nel Nord Africa. Bartali non si faceva mai male e Coppi si rompeva, però, devo ammettere, che Coppi aveva un’infinita classe in più. Rappresentavano due ideologie, due modalità di vedere il mondo, non erano solo dei semplici ciclisti e l’appoggio di uno o dell’altro implicava qualcosa in più rispetto al semplice tifo».

Un’immagine, il passaggio della borraccia nel Tour del ’52, li legò per sempre, inestricabilmente, nella fantasia collettiva e nella storia del ciclismo. Chi la diede a chi? Fu Bartali a darla a Coppi. Me lo urlò lui stesso, da toscanaccio verace in toscano mordace, in vacanza sul lungomare di Fossacesia: «Fausto non ne aveva più. Poi, fammi dire, io dalla sua non avrei bevuto…». E Fiorenzo Magni, leone delle Fiandre, aggiunse: «Bartali non aveva mai né sete né fame, né caldo né freddo. Per me la borraccia l’ha passata lui».

Quelle immagini, anche se le abbiamo soltanto riviste e non viste, non ci lasciano mai. Non ci lascia l’immagine, per dirla con Mario Ferretti, di «un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste». Un uomo perennemente in fuga. Verso dove e lontano da chi? Da che cosa fuggiva? Che cosa voleva dimostrare? Pedala, pedala. E va su. Ancora. E va su. Scrive Gianni Brera: «Su due spalle stranamente esili s’innesta il capo che neri e lisci capelli, quasi mai pettinati, paiono rendere allungato a dismisura. E il collo, che pure è sottile, quasi si perde nella secchezza della mandibola e nella nuca folta di capelli. Il torace, per una anomalia che è invece funzionale e a tutta prima non ti spieghi, via via che scende, ingrandisce, lo sterno pare carenato come negli uccelli».

Cosa può un corpo? Com’è possibile divenire airone e scalare il mistero della vita, curva dopo curva, sbranando avversari, nutrendosi di loro, traendo da loro forza, sempre guardando il cielo, sempre puntando il cielo? Come può un uomo issarsi così in alto, stella tra le stelle, lasciando che i brividi gli scivolino addosso? Aveva un cuore grande, Coppi, “come l’Izoard”, un dolore segreto che lo animava, una voglia di conquista che gli bruciava dentro. Chissà quante volte, sulle cime più alte, avrà ripercorso il film della sua breve vita! Castellania, Novi Ligure, la povertà, garzone in una salumeria, la prima gara, le braccia alzate, il matrimonio, la figlia Marina. Poi sarebbero arrivati lo scandalo dell’adulterio, la Dama Bianca, il piccolo Faustino, persino la condanna esplicita di Pio XII. Coppi non era nato per il palcoscenico ma ci finì, risucchiato nel vortice della chiacchiera, dello spazio pubblico, del perbenismo. Cose lontane dalle sue scalate, dalla sua fatica, dal suo essere fragile e solo. Un uomo solo al comando.

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