Sogno o son destro I miei strani trent’anni da milanista di sinistra

Nessuno ha subito l’effetto divisivo di Berlusconi quanto il tifoso rossonero non simpatizzante per Forza Italia. Alla morte del Cavaliere si tirano le fila di una lunga storia di fede, politica e calcistica

16.6.2023 Cataldo - linkiesta.it lettura4’

A quelli come me Silvio Berlusconi ha diviso l’anima in due. Parlo di un tipo particolare e diffuso: l’uomo di sinistra tifoso del Milan. Una condizione condivisa con migliaia e migliaia di consimili, gente a cui lui faceva girare le scatole a ogni tornata elettorale e che poi con lui saltavano e cantavano a ogni coppa levata al cielo. Una storia cominciata dal giudice fallimentare nel 1986 dopo i trionfi dell’era di Nereo Rocco, il paròn, e di Rivera. Al decennio tra gli anni Sessanta e Settanta (due scudetti, due coppe dei campioni, due coppe delle coppe, una coppa intercontinentale, tre coppe Italia) per il Milan era seguito un periodo lunghissimo in cui c’erano state più retrocessioni in serie B (due) che scudetti (uno, con gli ultimi lampi di Rivera e il genio tattico del Barone Liedholm)…

Il racconto inizia al suono della cavalcata delle valchirie e degli elicotteri a Milanello, tra le pernacchie di chi pensava che sarebbero serviti come quelli degli americani a Saigon per una fuga precipitosa nella vergogna. Invece l’uomo stava spacciando sogni per bambini cresciuti e nostalgici.

Dopo tre anni, il Milan era in cima al mondo e offriva a noi increduli tifosi partite da leggenda, come una stratosferica cinquina a uno dei tanti mitologici Real Madrid della storia. Non l’avremmo mai voluto ammettere, ma quella che sentivamo era la felicità assoluta del fanciullo che si trova a vivere una favola che credeva perduta nell’infanzia. E il merito era di un destroide cummenda che insultava le tue idee.

Quella schizofrenia sentimentale tra la ragione della politica e l’estasi dei sogni toccò il suo culmine il 18 maggio del ’94, quando nello stesso giorno il primo governo Berlusconi cercava la fiducia in un senato dalla maggioranza ballerina e il Milan invece cercava la sua quinta coppa dei campioni al cospetto del Barça allenato da Johann Crujff, battezzato come il dream team di sempre.

Ci andava senza la coppia centrale di difensori Franco Baresi/Alessandro Costacurta e senza una prima punta capace di segnare più dei dieci gol stagionali di Daniele Massaro, adattato a improbabile centravanti. Fu un doppio trionfo per lui e l’ennesima lacerazione per il tifoso di sinistra. Ma se devo essere sincero, non avrei mai contrabbandato la caduta in Parlamento della destra con i quattro gol rifilati ai presuntuosi catalani, umiliati da una doppietta del riadattato Massaro e pure con un indimenticabile pallonetto di Dejan Savicevic che impietrì l’arroganza di Crujff e capovolse i pronostici della vigilia. Altro che accontentarsi di un’onorevole sconfitta e crogiolarsi nella mistica da falliti della sfiga avversa come i bauscioni: non c’era alternativa alla vittoria se non il dolore senza consolazione possibile.

Confesso miserevolmente che ogni disfatta politica era lenita dalla speranza che i successi elettorali avrebbero arricchito la dotazione tecnica del Milan. E infatti dopo la sconfitta del ‘96, durante la lunga marcia nel deserto il profilo calcistico fu tenuto volutamente basso (e, ciò nonostante, non ci si poté esimere dal vincere il sedicesimo insperato scudetto, rimontando con sette punti nelle ultime sette partite la stellare Lazio di Sergio Cragnotti). Il cavaliere era improvvisamente rifiorito a nuova vita su tutti i media possibili per appropriarsi dei meriti, ma gli si perdonava tutto in quei momenti e si programmava pure di far tappa durante il viaggio di nozze a Perugia per l’ultima di campionato, sfidando il precoce naufragio matrimoniale.

Ritornato al governo fu di nuovo grandeur: da Rui Costa a Pippo Inzaghi, a Clarence Seedorf e Andrea Pirlo, presi con scambio da plusvalenze all’Inter, cui vennero rifilati due non eccelsi pedatori, a Rivaldo e poi Alessandro Nesta fino a uno sconosciuto talentino brasiliano che suscitò titoli memorabili («Galliani stringe per Kakà»). Fu l’ultimo pallone d’oro del Milan. E quell’abbinamento tra calcio e politica così straziante per il sentimento della sinistra calcistica continuava, nel bene e nel male.

Nel 2005 la sconfitta politica si accompagnò alla rovina di Istanbul, con la beffa di una rimonta di tre gol subita dal Liverpool e il dubbio che fosse finita. Invece dopo due anni Berlusconi e il Milan ritornano a rivincere in politica e in Champions (prendendosi pure la rivincita con gli inglesi). Il declino arriva nel secondo decennio, con la cacciata da palazzo Chigi e la squadra defraudata di uno scudetto per un gol non visto solo dall’arbitro nella partita decisiva con la Juventus. Il golden touch se ne andava, via pure i grandi giocatori, da Kakà a Zlatan Ibrahimovic, per salvare il bilancio, sostituiti da qualche vecchia gloria e mezze figure.

Berlusconi tuttavia è stato capace di finire il suo sogno politico e calcistico al momento giusto, quando non sarebbe stata più possibile l’epica titanica, ma solo una pallida imitazione. Quando il Milan è tornato a vincere per la prima volta senza di lui in trent’anni, spezzando una pericolosa catena sentimentale, ci si è comunque inteneriti a vederlo festeggiare la sera dello scudetto rossonero, come un’ombra di sogni lontani.

L’ultima immagine che resta, tremenda, è quella senza fiato e penosa di un uomo che si chiede: «Cosa ci faccio qui?», sapendo di non avere futuro. E aveva ragione, comunque la si pensi. Non era per lui una vita da mediano ad accontentarsi di una qualche Conference League. Quando finiscono i sogni bisogna andare.

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